2020-06-13

1919-1920 il “biennio Rosso” nelle fabbriche lecchesi


Gianfranco Colombo La situazione economica e sociale che si era creata dopo la prima guerra mondiale aveva portato con sé enormi problemi che avevano trovato nelle fabbriche terreno fertile di protesta. Quello del 1919-1920 è stato definito da alcuni storici “biennio rosso”, per sintetizzare le lotte operaie e contadine di quel periodo.
Basti dire che nel 1920 vi furono in Italia più di 2000 scioperi. Il 18 giugno i sindacati presentarono alla Federazione degli industriali meccanici e metallurgici delle richieste fra cui spiccava quella di aumenti salariali a fronte della crescita del costo della vita. La risposta degli industriali fu negativa e il 13 agosto ruppero le trattative, ne conseguì l’occupazione delle fabbriche da parte degli operai. Questo clima di conflittualità esplose anche nelle industrie lecchesi: le agitazioni operaie furono numerose. Alla base di queste occupazioni stava una situazione di tensione protrattasi nel tempo e sfociata in alcune importanti richieste dei sindacati, riassunte in una lettera inviata da Piero Peroni, direttore della Camera di Commercio e Industria di Lecco, a Giuseppe Riccardo Badoni, presidente della Camera stessa. In questa lettera, del 2 luglio 1920, il Peroni elencava i punti ritenuti imprescindibili dai rappresentanti degli operai: «1. L’abolizione delle ore straordinarie per abuso degli industriali nell’effettuare tale lavoro. 2. Pagamento dell’intera giornata del 29 giugno agli operai che si presentarono la mattina al lavoro e vennero rilasciati dalle ditte che ritennero di fare festa. 3. Revisione delle tariffe delle tele metalliche da letto e per i fibbiari». Nonostante i tentativi di conciliazione, il 31 agosto gli operai occuparono le fabbriche e la prima fu proprio la Badoni. Il 2 settembre l’occupazione si estese a tutte le fabbriche lecchesi, mentre gli industriali proclamavano la serrata generale. «Il prefetto – scrive Diego Minonzio nel suo saggio «Dalla camicia nera al mito della “Grande Lecco”» - riferiva a Roma che le officine occupate a Lecco erano: Porro, Metalgraf, Caleotto, Chiapponi, Badoni, Faini, Gerosa, Baruffaldi, Piloni, Milani, Valsecchi, Wilhelm Torri, Fili e Cavi Acciaio, Colombo, Laminatoio Arlenico, Wisman, Spadaccini, Redaelli, con un totale di 3000  operai. Riferiva inoltre che il 5 settembre 1920 nel circondario di Lecco erano stati occupati altri nove stabilimenti ove lavoravano circa 2000 operai e il 7 settembre 1920 altri tre stabilimenti a San Giovanni dove lavoravano circa 300 operai.
Tutte le occupazioni non avevano avuto conseguenze sull’ordine pubblico». Si trattava di una situazione ad alta tensione in cui non mancarono anche a Lecco momenti critici. La notte dell’8 settembre, alle ore 23, alla Badoni suonò la sirena. Era arrivato un camion dallo stabilimento di Lambrate, ma i carabinieri non volevano farlo entrare. La guardia operaia sparò alcuni colpi in aria, che richiamarono soldati e carabinieri. Per stemperare gli animi dovette arrivare l’ingegner Badoni, che diede il proprio assenso all’ingresso del camion e chiuse così l’incidente. Le occupazioni terminarono il 19 settembre. La vertenza metallurgica si concluse a Roma, grazie anche all’intervento del primo ministro Giovanni Giolitti.  A Lecco le occupazioni non ebbero strascichi particolari; non vi furono furti in azienda, né episodi di manomissioni o alterazioni degli impianti. L’unica eccezione fu lo stabilimento Piloni, da cui scomparirono alcuni documenti e la corrispondenza privata del ragionier Bernardo Piloni che finì per esser pubblicata sulle pagine lecchesi del periodico “Il Lavoratore comasco”. «Si trattò – scrive ancora Diego Minonzio – di un’occupazione eseguita ordinatamente e diligentemente, supportata da vari servizi logistici dal partito socialista, come cooperative, sovvenzioni, aiuti vari e controllata a distanza dalle forze dell’ordine, ma mai veramente convinta. Ma se questa era la sostanza di quelle due settimane di occupazione, era anche vero che l’impressione sui giornali e sull’opinione pubblica era ben diversa. I timori per le conseguenze di un avvenimento di quel tipo erano parecchi, specialmente tra quegli strati borghesi che si vedevano improvvisamente sfuggire la situazione dalle mani. Tali timori erano dimostrati, paradossalmente, dal silenzio, dall’apparente indifferenza dimostrata dai fogli locali nei confronti dell’episodio in questione. Mai un articolo in prima pagina e cronache ridotte all’essenziale».



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