“Dire che la salute è un bene e un diritto per tutte le persone può sembrare un’affermazione scontata.
Eppure, oggi, alla prova dei fatti, anche in Lombardia non è più così.
La politica di forte razionalizzazione delle strutture sanitarie attuata soprattutto nell’ultimo decennio da chi ha governato la nostra Regione si è tradotta nella chiusura di decine di strutture sanitarie periferiche e in un indebolimento generalizzato della sanità pubblica.
La pandemia ha messo a nudo tutte le falle di questo sistema sanitario che si è rivelato impreparato ed inadeguato a dare risposte concrete.
Dato atto che la sanità privata ha un indubbio valore, è tuttavia importante che quella pubblica sappia garantire livelli di assistenza generale adeguati: solo una corretta integrazione tra queste due realtà può andare nella direzione di una efficienza complessiva del sistema.
Un modello equilibrato va costruito per rispondere ai bisogni crescenti ed in evoluzione verso una popolazione che invecchia sempre più velocemente.
In questo modello il servizio collettivo deve tornare a svolgere un ruolo che ha progressivamente perso.
Per recuperare terreno occorrerà una programmazione di lungo termine, sfruttando anche le risorse derivanti dal PNRR e probabilmente ulteriori risorse, a cominciare dall’attivazione del MES che il Governo Meloni sembra invece rifiutare, mettendo finalmente al centro le persone.
Farlo in modo concreto: non è più possibile pensare che un cittadino debba aspettare mesi per avere un appuntamento per un esame quando una patologia grave lo richiede, né che la prevenzione sia trascurata. Occorre un cambio di passo.
La riorganizzazione deve tornare a considerare ambito socio-sanitario e ambito socio-assistenziale come un tutt’uno, che necessita di entrambe le tipologie di servizi.
Ciò favorendo ed incentivando i percorsi di dimissioni protette dagli ospedali, oggi difficili da ottenere per le famiglie, lasciate spesso da sole ad affrontare l'emergenza, in molti casi con costi ingenti da sostenere in proprio; favorendo percorsi sanitari ed assistenziali a domicilio, che riducano al minimo i percorsi di ospedalizzazione e di ricovero temporaneo o permanente in strutture protette o case di riposo.
In questo senso le case di comunità dovranno diventare un punto di riferimento territoriale capace di dare soddisfazione a tali bisogni.
Oggi, l’apertura di queste strutture e la loro attivazione reale segnano il passo.
Alla base vi è quello che molti sindaci, anche in questi giorni, stanno evidenziando, cioè la carenza di medici ed infermieri, ma anche di assistenti sociali, educatori ed altri operatori assistenziali.
Forse perché quelli che durante la pandemia abbiamo chiamato “angeli” per lo straordinario lavoro che hanno fatto, finita l’emergenza sono stati lasciati soli, con stipendi non adeguati al servizio indispensabile che svolgono. Perché, in questi anni, la Regione non ha investito a sufficienza per orientare verso queste professioni i giovani.
É da qui che dobbiamo ricominciare, dalla costruzione di una sanità diffusa sul territorio, a partire dai presìdi che abbiamo e che devono esser messi in grado di operare con i livelli di eccellenza che meritiamo. Potenziare queste strutture, penso innanzitutto all’Ospedale di Merate è un impegno che, chi come noi ha a cuore realmente questo territorio e la salute dei cittadini che vi abitano, intende assumersi”.
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