Cesare Perego - La ricerca storica sull’attività estrattiva nelle miniere dei Resinelli si svolge essenzialmente sul versante documentario e su quello archeologico. Lo studio sulle attività estrattive e metallurgiche nel periodo successivo alla crisi dell’Impero Romano deve confrontarsi in Lombardia con gravi difficoltà nel reperimento e nella valutazione critica delle fonti. La letteratura geologica e naturalistica sovviene lo studioso dell’Alto Medio Evo anche quando non rileva l’esistenza di opere estrattive, ma descrive semplicemente i caratteri delle mineralizzazioni metallifere. Lo sfruttamento alto medievale, intrinsecamente precario, sembra essersi rivolto a contesti minerari che, sia pur di scarsa entità, presentavano una elevata concentrazione metallica, erano reperibili senza eccessivi sforzi estrattivi e richiedevano semplici trattamenti metallurgici. Il contesto socio economico di questi secoli lascia intravvedere interventi superficiali e su scala modesta, senza l’impiego sostanziale di gallerie e cunicoli o con un riutilizzo parassitario di quelli già esistenti: tali operazioni hanno lasciato sul terreno tracce assai difficilmente rilevabili, frequentemente obliterate da ben più massicci interventi posteriori e in genere sfuggite o comunque ignorate dai geologi. Risultati apprezzabili sulla produzione mineraria altomedievale non possono essere raggiunti attraverso l’estensione dei modelli caratterizzanti in età industriale le aree estrattive e metallurgiche. In effetti le imprese ottocentesche si sono in genere indirizzate a depositi, la cui natura fisica o giacimentologica avrebbe precedentemente reso improponibile una coltivazione, mentre hanno dedicato scarsa attenzione alle mineralizzazioni più esigue, anche se di ottima qualità.
Nella maggior parte dei casi, modeste attività estrattive o una semplice raccolta di prodotti minerari potevano essere svolti dagli abitanti di località più o meno vicine ai giacimenti attraverso un impegno temporaneo, talvolta stagionale, che si integrava con l’esercizio di più comuni attività agrosilvopastorali. Una ricerca di Attilio Sangiani (pubblicata su Archivi di Lecco n° 3/1987) rimarcava il ritrovamento nel torrente Gerenzone, a nord di Lecco di un oggetto litico utilizzato in età alto-medievale come “spalla” di un maglio per la lavorazione di minerali, con l’uso di una ruota d’acqua quale fonte di energia. Sangiani estese poi la sua ricerca sia temporalmente, abbracciando tutto l’arco di tempo dall’età romana ai nostri giorni, sia territorialmente con l’ispezione di un territorio che comprendeva le provincie di Como, Lecco e Bergamo riscontrando altri oggetti simili con un foro quadrato eccentrico e passante, nella stessa posizione e con dimensioni quasi standardizzate. Una testimonianza quindi della precoce applicazione dell’energia idraulica alla manifattura dei minerali documentabile nell’area durante i secoli XII-XIII. In questi secoli invece documenti scritti tacciono sulla nostra zona mineraria. Sappiamo però che in documenti italiani dei secoli VIII -IX sono piuttosto frequenti le menzioni di “calderarii ed ed aurifices”, a fronte di ben pochi “fabri”. Il maggior impegno tecnologico ed economico richiesto dal reperimento e della lavorazione di rame, stagno e metalli preziosi sembra spiegare il prestigio di questi artigiani, mentre i manufatti in ferro e minerali “poveri” erano realizzati in genere da “artifices” socialmente poco differenziati dai coloni e poco degni quindi di menzione. La documentazione scritta non è in grado di dimostrare lo sfruttamento dei giacimenti metallici in aree minori e su materiali poveri come quelli riscontrabili in Val Calolden prima del Rinascimento.
L’Archeologia pre-industriale come attestato da Sangiani sembra però testimoniare un’attività locale produttiva anche nei secoli medievali. Per avere attestazioni documentarie dobbiamo arrivare quindi al sec. XV sondando le linee di sviluppo economico di un territorio, naturalmente povero e svantaggiato dal punto di vista agricolo, ma ricco di altre risorse, e soprattutto di intraprendenza e capacità lavorativa (lo studio più completo resta quello Enrico Baroncelli, La Valle del Ferro, in Archivi di Lecco, n° 2/1994). Scopriamo così richieste di “immunità fiscali” per scavare “certe miniere di piombo ferro ed altri minerali” nel territorio lecchese come avvenne per il dott. Gerosa nel 1582 o il rilascio di “patenti di ricerca” di minerali sul Coltignone come avvenne per i Brusca e i Pedrotti nel 1676. Similmente a tutte le attività di ricerca “casuali” da questi documenti risultano operare personaggi strani ed originali, con presunte capacità divinatorie per fiutare filoni estrattivi o ipotetiche competenze tecniche che finivano in realtà in tragedia come l’incidente occorso nel 1962 a due “mastri alemanni” che videro lo scoppio di un forno posto alla bocca della miniera, con morte di uno di loro e precipitosa fuga dell’altro. Tecnici più affidabili sembrano nella seconda metà del 600, altri alemanni del Vallese che riescono finalmente a tirar piombo dalla vena. Nel 700 è risaputo che “la più riscoperta miniera di piombo sarà quella a monte di Pomedo nella valle del Calolden quasi in cima allo strapiombo tra il Fontanin Cò del Luf e il Roccolo dei Resinelli”. Nei secoli successivi le vicende sono alterne e dall’Ottocento interviene anche il capitale internazionale a gestire un’attività sottoposta sempre più ai corsi e ricorsi dell’economia mondiale. Arriviamo così all’autunno del 1958 quando Andrea “Manara” non accettava il trasferimento in un’altra miniera della Valsassina in concessione alla Salbar e preferiva farsi licenziare. Era la fine di un’epoca causata dalla sostituzione del piombo con la plastica che determinerà la definitiva chiusura dell’estrazione di minerale in Val Calolden, una vicenda durata almeno cinquecento anni e svoltasi in luoghi oggi accessibili turisticamente grazie alla rivalutazione museale di tutto il complesso minerario.
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