2021-04-21

Quando Giulia Zucchi scriveva: “Dobbiamo tener viva la storia per le giovani generazioni”

Simbolo della lotta di Resistenza, la mandellese decise di raccontarsi sul finire degli anni Novanta attraverso le pagine di un libro-diario

 



di Claudio Redaelli Era la fine degli anni Novanta quando Giulia Zucchi, simbolo della lotta di Resistenza, decise di raccontarsi attraverso le pagine di un diario. Un percorso con tanti ostacoli, superati con la determinazione e la volontà di chi aveva scelto di non accettare la sopraffazione e l’ingiustizia.

Quella carezza sotto il mento con cui il presidente della Repubblica Sandro Pertini la congedò dopo averla ricevuta nel 1983 al Quirinale e la lettera che Enzo Tortora le scrisse prima di morire per denunciare “la buia notte della democrazia” che aveva avvolto il Paese erano rimaste scolpite nella memoria della mandellese, che non ha mai esitato a definire l’8 settembre 1943 “la data più terribile e infame della storia d’Italia”.

Si è detto del diario da lei voluto sul finire degli anni Novanta. Si intitolava Giulia - Un duro percorso di vita da Somana a Poada ed era stato dato alle stampe dall’Editoria grafica Colombo di Valmadrera. In quel libro Giulia Zucchi, classe 1922, ricordava vari episodi della lotta di Resistenza. Tra gli altri, questo: “Un giorno, mentre tornavo da Lecco con la borsa  carica di munizioni, sulla strada davanti all’ex caserma dei carabinieri mi fermò un fascista di Mandello. Cosa vuoi da me?, gli chiesi. Lui rispose: “Guardare nella tua borsa”. Allora io gli dissi: “Guardaci pure, mi sono recata a Lecco a fare un po’ di spesa”. Convinto dal mio atteggiamento sicuro, lui non guardò. Quel giorno presi un grande spavento e, arrivata vicino alla Moto Guzzi, scesi dalla bicicletta e per qualche minuto rimasi appoggiata al muro. Poi proseguii, arrivando fino a Somana”.

Poi un altro episodio: “Nel marzo del ’44 fui mandata a Milano per ritirare delle armi che ci avevano procurato i Gruppi di azione patriottica, che ebbero grandissimo merito nella lotta partigiana. Dovevo recarmi in via Pellizza da Volpedo… Caricai le armi in una valigia di dimensioni medie. Arrivata in piazza Castello un repubblichino in borghese fece scendere tutti perché il tram non proseguiva oltre. Si viveva nel terrore e nessuno protestò. Presi la mia valigia e mi incamminai verso piazza della Scala per riprendere il tram… All’imbocco di via Dante c’erano le macerie di un grande palazzo bombardato. E dalle macerie partirono raffiche di mitraglia. Erano i gappisti che attaccavano un corteo fascista… Proseguii con la mia valigia. Avevo 22 anni e tanta voglia di liberare l’Italia. Ormai erano diventati 100 i compagni che mi aspettavano lassù a Era.”.

E ancora: “I cittadini mandellesi ci aiutarono molto, altrimenti non avremmo potuto resistere venti mesi in montagna. La nostra Brigata ha avuto il privilegio di ospitare uno dei partigiani più giovani d’Italia. Sua madre Fulvia Poletti, sorella del nostro comandante Lino Poletti, e suo padre Isidoro Mauri, antifascista di vecchia data, avevano portato con loro il figlio Franco, di soli 5 anni, per sfuggire alle rappresaglie fasciste. Quando di sera i partigiani scendevano da Era per fare delle azioni, al ritorno si fermavano a casa mia e io preparavo gnocchi di patate… Finito di mangiare, i partigiani si incamminavano nuovamente verso Era. Quasi tutti a piedi nudi, perché scarpe non ne avevamo… A Somana non si è mai visto, durante il periodo della resistenza, un tedesco o un fascista. Appena in paese si vedeva un volto nuovo, tutti erano in allarme. Quasi tutti avevano in montagna fratelli o parenti, così si stava sempre molto attenti. E fortunatamente è andata sempre bene”.

Nel libro-diario di Giulia Zucchi c’era quindi spazio per un intero capitolo dedicato a Giovanni e Giuseppe Poletti, arrestati mentre percorrevano la strada che portava a Molina. Giuseppe tentò la fuga che lo portò alla morte, Giovanni fu condotto al comando tedesco a Molina, torturato e fucilato all’esterno del cimitero.

“Ci chiamavano banditi - scriveva la Giulia - ma in realtà i banditi erano loro”. Poi il racconto dell’attentato della Maiola dell’ottobre 1944 costato la vita a Battista Morganti (il Brachèt), Davide Gaddi e Adamo Gaddi, quest’ultimo morto nell’ambulatorio del dottor Stea dove era stato portato a causa delle gravissime ferite riportate nello scoppio.

Infine lo scioglimento della Brigata e i giorni della Liberazione. E una considerazione: “Purtroppo la vita ha il suo corso inevitabile e tutti gli anni qualcuno manca all’appello, ma la storia dobbiamo tenerla viva. Il ricordo deve restare anche per le giovani generazioni, per far sì che l’Italia rimanga sempre uno stato democratico e libero”.

Tra pochi giorni sarà il 25 aprile, settantaseiesimo anniversario della liberazione dell’Italia dal nazifascismo. E di quella data, appunto il 25 aprile 1945, Giulia Zucchi parlava in quel suo stesso libro. “Quando arrivò il 25 aprile - scriveva - non ci sembrava vero di poter circolare per Mandello liberi. Ma dopo qualche giorno arrivarono notizie allarmanti. A Mandello giunse infatti l’Armata Liguria comandata dal generale Pemsel. Presero il posto dei loro colleghi tedeschi e si installarono per qualche giorno alle ex scuole di Molina. Il generale tedesco era disposto ad arrendersi soltanto davanti a un pari grado”.

“Interpellato telefonicamente il Comitato di liberazione nazionale Alta Italia - aggiungeva - mandammo a prendere a Milano un ufficiale e in una sala dell’attuale asilo di Molina, sotto dettatura di un interprete, la resa fu scritta da me a macchina. Il 30 aprile, finalmente, i tedeschi presero la via del ritorno, passando per il Brennero. Prima di partire gettarono molte armi nel lago nella zona delle gallerie di Lierna, dove l’acqua era molto profonda...”

“Essere stato partigiano - si leggeva sempre nel libro-diario della mandellese - per qualcuno non era considerato un titolo di merito, in particolare se si aggiungeva garibaldino”. E ancora: “Ciascuno di noi si è dato da fare, singolarmente oppure inserito nelle associazioni e nei comitati preposti a compiti di assistenza o con iniziative politico-culturali che ritenevamo positive per un ritorno a una normalità vivibile. Abbiamo cercato di fare tutto con lo stesso impegno profuso nella lotta di liberazione. E oggi la mia disponibilità e il mio entusiasmo li dedico all’Anpi e, legata ai miei compagni più cari, resisto perché so quanto è importante l’impegno che ci siamo assunti di non lasciar dimenticare”.

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