2020-12-24

Ottantanni fa moriva a lecco l’Architetto Giuseppe Mazzoleni



Gianfranco Colombo - «Dopo lunghe sofferenze sopportate con invitto animo eroico, si è ricomposto nell’augusta serenità della morte il volto maschio e virile dell’architetto Giuseppe Mazzoleni: quel volto sempre attento e concentrato, sul quale il sorriso sapeva schiudere luminosità impensate». Inizia così il necrologio che La Provincia dedica il 10 marzo 1940 all’architetto e scultore Giuseppe Mazzoleni. Ottant’anni fa, a soli 32 anni, se ne andava un ingegno notevole. «Dove sarebbe sfociata la tua continua ricerca del meglio? Quale indirizzo avrebbe preso la tua architettura?», si chiede la moglie Sofia Badoni, e sono domande che riflettono le potenzialità di una personalità che avrebbe potuto dare molto in qualsiasi campo della vita. Giuseppe Mazzoleni nasce a Lecco nel 1908, compie gli studi classici, e nel 1931 si laurea alla scuola superiore di architettura del Politecnico di Milano. Dopo la laurea inizia la carriera di architetto, ma non rinuncia alla scultura, per approfondire la quale aveva frequentato l'atelier dello scultore Wildt. Partecipa a numerosi concorsi in cui si distingue per la sua originalità. Insegna alla scuola di Arti Decorative, che ha sede nella villa reale a Monza e crea molte sculture che vengono esposte nelle gallerie milanesi. È presente con numerosi lavori, realizzati in collaborazione con un gruppo di giovani architetti milanesi, alla VI Triennale che si svolge a Milano nel 1936. Nello stesso anno si associa ad Antonio Carminati in uno studio professionale a Milano 
 e nel 1937, proprio con Carminati, partecipa al concorso per il monumento alla vittoria in piazzale Fiume a Milano e, insieme anche a Terragni, al concorso per la casa del Fascio a Lissone, vincendo il primo premio in entrambe le competizioni, ma realizzando soltanto il progetto lissonese. Sempre nel 1937 Giuseppe Mazzoleni è protagonista, a Lecco, alla VII Mostra Quinquennale dei Prodotti Locali. «La Mostra era patrocinata da mio padre – scrive Sofia Badoni – sempre in prima linea quando si trattava di iniziative che interessavano la sua città.La Mostra doveva essere pronta per settembre e il Comitato organizzatore, avendo saputo che girava per Lecco, in vacanza, l’architetto Giuseppe Mazzoleni, del quale si parlava già tanto, pensò di invitarlo a collaborare all’allestimento. Col suo temperamento esuberante non si fece pregare e fu così, lavorando insieme, che ci conoscemmo. L’attrazione fu subito reciproca e in quelle sere di luglio, finito il lavoro, ci si vedeva passeggiare in bicicletta lungo il lago, parlando e ridendo». Sofia Badoni e Giuseppe Mazzoleni si sposano il 22 agosto 1938. E’ proprio durante il viaggio di nozze che accade il grave incidente che costringerà l’architetto su una sedia a rotelle. E’ il 10 settembre quando sulla strada da Gela a Modica, Mazzoleni, che era sulla sua bicicletta, per evitare un carretto, finisce in un dirupo. Viene ricoverato subito a Bologna, ma la gravità della situazione è tale che non potrà più camminare. Nonostante tutto questo, Mazzoleni continua a seguire quello che sarà il suo ultimo lavoro: la villa Ponziani a Lecco. La sua tenacia e la sua lucidità sono ricordati dall’amico Ernesto Rogers in un articolo sulla rivista Domus: «Da quel letto dolorosissimo (perché enormemente lo lancinava il male), l’architetto Giuseppe Mazzoleni dirigeva gli operai del cantiere della Villa di Lecco e per essi preparava disegni nei più minuti dettagli. Ma spesso, fino che un filo di forze fisiche lo consentiva, si faceva portare a braccia sulla barella, per andare a vedere la Sua creatura che cresceva e dar di presenza consigli. Per mesi e mesi, fino all’ultimo, egli ebbe la mente e l’azione rivolte a questo nobile lavoro, fino a quando esso fu compiuto e solo allora cedette al corpo infranto». L’architetto Giuseppe Mazzoleni muore il 10 marzo 1940 sempre per i postumi della tragica caduta. Le sue ultime settimane di vita sono descritte con grande sofferenza da Sofia Badoni: «Il male non dà tregua e ora il Giuseppe non riesce più a reggersi sulla schiena. Il papà inventa una specie di seggiolone dove poter immobilizzare la spina dorsale. Così legato, gli restano libere le braccia e le mani e con questi due “arnesi” lavora in continuità sia ai disegni di architettura sia ai bozzetti di molte idee che intende realizzare in scultura. Ma la legge dell’Universo non concede venia e i giorni scorrono via veloci, uno dopo l’altro. 10 settembre 1938 l’incidente – 10 marzo 1940 la fine: giusto un anno e mezzo. Verso le quattro del mattino sento la voce di Giuseppe, non un trepido sussurro preagonico, ma una voce chiara, sicura, con la quale mi dice le sue ultime parole: “Sofia, io muoio”. Così semplicemente, senza rimpianto, senza recriminazioni, come se andasse a fare una passeggiata».

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