di Renato Frigerio - Posso affermare che la mia passione per la montagna non è priva del pregio della fedeltà, caratteristica che, in ogni campo dove si attua lo svolgersi dell’esistenza, indica con precisione l’autenticità di ogni grande amore.
E lo posso affermare per il fatto che questa mia passione non conosce interruzioni o intervalli ormai da oltre dodici lustri, senza mai affievolirsi, e che anzi sembra rinnovarsi di anno in anno con crescente intensità. Coltivo insieme l’interesse per la montagna e per l’arrampicata, che finchè mi è stato possibile mi ha coinvolto con una pratica che andava certamente oltre il comune escursionismo. L’alpinismo però l’ho vissuto soprattutto di riflesso, appassionandomi ad una conoscenza approfondita della sua storia e dei personaggi che l’hanno arricchita con le loro indimenticabili imprese ed ancora più con il racconto delle loro esperienze che rivelavano quanto la montagna aveva inciso profondamente nel loro animo. In seguito a questo mi è maturata la convinzione che la vera conoscenza di qualsiasi alpinista che abbiamo ammirato per le sue fantastiche conquiste debba tenere conto principalmente di questo secondo aspetto, che ce lo farà apparire indicibilmente grande solo quando ci rapporteremo con lui non più come ad un “personaggio”, bensì come ad una “persona”, presa nel suo significato più vero ed avvincente. Riguardo a ciò ho cercato di approfondire la conoscenza dei più sorprendenti alpinisti indagando tra le parole dei loro racconti, alla ricerca di quella che fosse la sincera manifestazione del loro animo, per trovare a quale profondità avessero trovato la forza, il coraggio e la dedizione per partire verso avventure rischiose, che promettevano soltanto insidie e incredibili sofferenze. Sono stato tanto fortunato per aver potuto incontrare e conoscere molti di questi alpinisti di fama mondiale e di essermi potuto più volte intrattenere con alcuni di loro in conversazione confidenziale, per cui il ricordo che mi rimane tuttora è sempre vivissimo ed emozionante.Tra le immagini che mi affollano la mente, ce n’è una che adesso si sovrappone su tutte, riuscendo perfino ad oscurarle quasi totalmente. Forse è perché sto riconoscendo in lui uno degli alpinisti con cui a suo tempo mi ero sentito in completa sintonia, quando ci eravamo fermati a conversare al termine di una sua emozionante conferenza serale. Ma è proprio lui, Patrick Bèrhault, che, a soli tre anni da quel fortunato e piacevole ultimo nostro incontro, sì perché nel tempo ben quattro volte ho avuto l’opportunità di avvicinarlo, va a precipitare nella gelida gola di un crepaccio che lo inghiotte per sempre nel cuore delle sue più amate montagne. Si fa fatica a crederci e a non piangere quando una persona che si pone su un piedistallo fino a considerarla immortale, scompare improvvisamente così.
Mi era sempre piaciuto Patrick Bèrhault, anche per quella sua goliardica storia che lo aveva determinato alla decisione di immolare la sua vita, anima e corpo, all’alpinismo. Tutto era successo nei lunghi mesi di reclusione in una cella di rigore, dove era finito per aver disertato il servizio militare, e lo aveva fatto per comprensibili motivi. Ma poi si era spontaneamente consegnato alle autorità militari, e siccome non tutto il male viene per nuocere, dalle riflessioni e meditazioni facilitate dall’isolamento, ne era uscita quella felicissima decisione. Non come una novità, perché già in età adolescenziale Patrick aveva manifestato la sua spiccata propensione e attitudine verso l’alpinismo, ma ora messo in libertà per lui non ci sarebbe stato altro che l’istintivo fascino esercitato dalla bellezza dell’alta montagna ed un’unica passione: l’alpinismo nella forma più pura e motivata. Questo corrispondeva certamente, anche se in un primo tempo non ancora tematicamente, a quanto più tardi avrebbe espresso in modo chiaro e profondo:
“La bellezza dell’alta montagna esercita su di me uno strano fascino, certamente non minore di una singolare attenzione istintiva. Non sono sensazioni che si possono esprimere, si vivono. Mi sento spinto all’azione, persino a volte contro la mia volontà, come se essa mi permettesse di giungere più intimamente a contatto con questa bellezza, che non attraverso la semplice contemplazione. Lo sguardo da solo non è in grado di soddisfare il fattore fisico, anche se alla fin fine quest’ultimo si afferma in tutto il suo valore e la sua ricchezza, se non come prolungamento e meta finale del momento contemplativo. E poi vi è questa necessità imperiosa di muoversi, di agire, di fare, di creare. Una creazione che si manifesterà attraverso dei gesti, ma che comincia già ad esistere in una certa visione della montagna e nell’immaginazione della linea ideale che si innalza diritta verso la vetta, come se essa non fosse soltanto il punto di arrivo, ma il trampolino per spiccare il volo verso un altro mistero, un’altra bellezza”.
A sedici anni dalla fine della sua avventura umana, non è certo attraverso uno scarno articolo che si può ricordare questo gigante dell’alpinismo ripercorrendo quello che sarebbe un lungo elenco delle sue imprese. Che se poi anche lo facessimo nella forma arida di un semplice riepilogo, non sarebbe certo quello che lui stesso avrebbe preferito, perché non è in questo che potremmo raggiungere la realtà del suo animo.
Possono essere oggi molto più utili le parole testimoniali che una Guida Alpina di Courmayuer, frazione Dolonne, Renzino Cosson, riusciva a pronunciare a stento e tra le lacrime, non appena appresa la triste notizia: “Ho perso un amico. Adesso diranno che era il migliore. Che importanza ha? Ciò che è importante è che Patrick ha stupito gli alpinisti per ciò che è riuscito a fare. Non si fermava mai, inseguiva le pareti. E sapete perché? Perché era un grande uomo, un poeta. Non gli interessavano i primati, ma le montagne e gli uomini che incontrava nei suoi viaggi. Umile e appassionato. Faceva venire a tutti la voglia di arrampicare, di andare a conoscere il suo mondo verticale.
In una parola, Patrick era unico”.
Box – PATRICK BÈRHAULT (1957-2004)
“Vado in viaggio”, diceva Patrick Bèrhault, guida alpina dal 1990, mentre preparava corde, chiodi, piccozza e ramponi. Forse perché era nato a Thiers, nel 1957, sul mare e aveva negli occhi il largo orizzonte di Nizza.
Alpinismo come avventura in mare. “Deux mondes très proche”, mondi vicini, assicurava.
Mercoledì, 28 aprile 2004, è stato inghiottito da un lembo d’orizzonte candido, una cornice di ghiaccio della cresta che lega due giganti alpini non lontani dal Cervino, il Taschhorn (4490m) e il Dom dei Mischabel (4545m), nel Canton Vallese.
Era “in viaggio” sulle Alpi Pennine per consegnare all’alpinismo un’altra grande impresa: raggiungere senza mai fermarsi tutte le 82 vette delle Alpi oltre i 4000 metri.
Aveva 47 anni, Bèrhault, e sempre un sogno da raggiungere. L’ultimo è stato infranto senza un grido, a poco più di dieci metri dal suo compagno di scalata, Philippe Magnin.
“È rimasta un’orma sulla neve, e il suo corpo che precipitava in mezzo alla nube”, dice Philippe.
Destino simile ad uno dei più grandi alpinisti di tutti i tempi, Hermann Buhl, che nel 1957 concluse la sua vita sul Chogolisa, nel Karakorum, perso in una cornice di ghiaccio e in una voragine di oltre mille metri. Il suo corpo non fu mai più ritrovato. Quello di Bèrhault è stato recuperato dalle guide del soccorso alpino elvetico di Air Zermatt. Era ai piedi del Dom, sul versante di Saas Fee, cittadina che divide con Zermatt il ruolo di regina dello sci e dell’alpinismo.
Lui e Philippe hanno avuto l’ultimo contatto telefonico con Jean-Michel Asselin, redattore della rivista “Vertical Magazine”, che teneva il carnet di viaggio su internet, alle 9,30’ di mercoledì 28 aprile. Erano partiti più tardi del solito dal bivacco Mischabel dopo una notte di leggere nevicate, intervallate da un vento freddo. Hanno aspettato il giorno, quando le nubi in arrivo dall’Italia si stavano diradando. Ma quelle nuvole avevano colmato il versante di Saas Fee del Dom e hanno poi impedito a Philippe Magnin di vedere dove fosse caduto il compagno. Philippe è tornato sui suoi passi, di nuovo al bivacco e di lì ha chiamato i soccorsi, ma il maltempo non ha consentito agli elicotteri di raggiungere la zona, così come ha frenato le squadre a piedi.
Note di rilievo.
Patrick Bèrhault, una figura emblematica dell’alpinismo moderno, era legato a Lecco col suo fedele rapporto di testimonial della Ditta CAMP, produttrice di articoli sportivi, con sede a Premana, in Alta Valsassina.
Si era presentato più volte al pubblico del territorio lecchese con spettacolari serate. L’ultima volta risale all’anno 2001, col successo riscontrato da una grossa affluenza di spettatori, nell’ambito dell’affermato e apprezzato ciclo annuale organizzato dal gruppo alpinistico Gamma.
Exploit:
Ha realizzato incredibili concatenamenti sul Monte Bianco.
1991.- Ha realizzato l’attraversata completa in solitaria del massiccio del Monte Bianco;
1996.- Prima scalata solitaria in invernale sulla parete Nord del Rateau, nel massiccio dell’Oisans;
Tra le performance di arrampicata sportiva, riprendiamo:
1980.- prima salita in libera della famosa “Pichenibule” in Verdon;
1981 – di “La Haine” (7c+), nella falesia di La Turbie, in Francia meridionale;
1986.- di “Le Troit d’Auguste” (8b+), nella stessa falesia di La Turbie.
Svolgeva il ruolo di istruttore dell’Ensa, la scuola nazionale francese di alpinismo e di scialpinismo.
Riportiamo di seguito le sue spedizioni:
1980 – Tentativo al Nanga Parbat (8125m), Karakorum del Punjab, Pakistan
1982 – Jannu (7710m), Himalaya del Sikkim, Nepal
1985 – Alpamayo (5945m), Cordillera Blanca, Perù
1988 – Shisa Pangma (8046m), Himalaya del Nepal
1991 – Hoggar, Sahara, Algeria meridionale: apertura di nuovi itinerari
1992 – Uhure Peak – Kibo (5895m), Kilimagiaro, Tanzania: come guida accompagna
in vetta cinque non vedenti
1993 – Aconcagua (6962m), Cordillera Central, Argentina
1995 – Kilimangiaro, tra Tanzania e Kenia, versante Sud del Kibo (5895m),
lungo il ghiacciaio di Heim
2003.- Everest (8848m), Himalaya del Nepal
Traversate e concatenamenti di eccezionale rilievo:
Dal 25 agosto 2000 al 9 febbraio 2001, compie la salite più classiche e difficili di tutta la catena alpina, scalando 22 tra le cime più importanti, dalla Slovenia alla Costa Azzurra, spostandosi solo a piedi e con gli sci.
La sua attraversata di tutto l’arco alpino è cominciata dalla Slovenia, vicino al confine con Italia e Austria, con la scalata della parete Nord del Triglav (2864m o Tricorno), la cima più elevata delle Alpi Giulie, per poi affrontare in successione nelle Dolomiti le Tre Cime di Lavaredo, il Civetta, la Marmolada, il Crozzon di Brenta e la Brenta Alta, per finire sulla piazza principale di Mentone, in Costa Azzurra, 3000 chilometri più a Ovest.
Ci ha lasciato il 28 aprile 2004 nel tentativo di un’altra grande impresa: raggiungere tutte le 82 vette delle Alpi oltre i 4000 metri.
(Si precisa che agli inizi degli anni novanta del secolo scorso l’U.I.A.A. – Unione Internazionale delle Associazioni di Alpinismo – istituiva una commissione italo-franco-svizzera con il compito di stabilire l’elenco delle cime europee alte più di 4000 metri. Tra i requisiti, quello di superare ovviamente i 4000 metri d’altezza, di distare almeno 30 metri dal quattromila più vicino, di possedere un interesse morfologico o alpinistico: 82 hanno superato l’esame e sono disseminate tra Italia, Francia e Svizzera, 46 sono state escluse. Pertanto secondo i dati ufficiali, pubblicati nel 1993, l’elenco dei quattromila delle Alpi comprende 82 cime)
Sono queste 82 cime che la cordata Bèrhault-Magnin aveva iniziato a concatenare il primo marzo 2004 e avrebbe dovuto salire entro il 21 maggio. Al momento della caduta di Patrick, i due alpinisti ne avevano all’attivo 67, non ne restavano che 15!
Dagli Ecrins al Gran Paradiso, dal massiccio del Monte Bianco alle Alpi del Vallese, dove l’avventura si è purtroppo conclusa prima di toccare la tappa finale del viaggio: il Bernina.
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