2022-03-23

GIORGIO REDAELLI: COME POTREMO DIMENTICARLO, CON COSÌ TANTE VIE DI ARRAMPICATA CORRELATE AL SUO NOME?


di Renato Frigerio Si va inesorabilmente riducendo al lumicino l’invidiabile schiera degli alpinisti lecchesi che nell’ultimo trentennio del secolo scorso hanno continuato a tener viva la gloriosa tradizione che per lungo tempo ha portato ai vertici dell’ammirazione nazionale il nostro territorio. Ad inferire l’ultimo doloroso colpo è stato il mandellese Giorgio Redaelli, che silenziosamente se n’è andato nelle ore mattutine di domenica 27 febbraio, all’età di 86 anni e 7 mesi, staccandosi, come sempre succede, dal corteo esistenziale di amici e conoscenti, senza proferire una parola di addio. Non ci si sbaglia invece a pensare che molta gente avrebbe avuto più di un motivo per esprimergli un ultimo cenno di riconoscenza per le tante emozioni che aveva regalato sia al momento dell’esecuzione sia al successivo racconto delle sue superbe e affascinanti arrampicate. 

Ma è solo per queste che lui si è acquisito ammirazione e simpatia? Se lo rimpiangiamo ora amaramente è soprattutto per averne conosciuto l’intensità e la concretezza della sua passione per la montagna, cui ha dedicato fino all’ultimo la sua vita e le sue iniziative. Per giustificare l’elogio che gli attribuiamo si dovrebbe ricorrere ad un lungo elenco di prestazioni che, pur se completo, solo a stento riuscirebbe a disegnarne l’aspetto alpinistico e umano, che più semplicemente potrebbe venire definito, dal gergo non più in uso, come “uomo d’altri tempi”. In questo modo lasciamo libero lo spazio mentale al ricordo personale della sua figura che sta al di sopra di dati e vocaboli. Del resto, come si potrebbe condensare in un ridotto articoletto il diffuso racconto autobiografico con cui lui stesso si è ampiamente descritto, partendo dalla sua origine e dalla sua infanzia, fino al 2004, l’anno in cui ha dato alla stampa il suo volume “Momenti di vita: conquiste ed esperienze…”? Qui fortunatamente veniamo a scoprire tutto di lui: vale a dire, oltre alla realtà di avvincenti racconti di avventurose conquiste e di suggestive situazioni esistenziali, si evidenzia la personalità ed il carattere deciso di un uomo che, puntando al successo dei suoi straordinari obiettivi, non ha esitato a mettere nel conto rischi, sofferenze e insidie di ogni genere. 

Giorgio Redaelli era nato il 30 luglio 1935 a Molina, frazione a monte di Mandello del Lario. Crescendo ai piedi delle Grigne, proprio sotto la maestosità monolitica del Sasso Cavallo, non doveva essere troppo difficile e raro per un ragazzo venire attratto dalla passione per l’arrampicata. Così fu anche per lui, che dopo il versante settentrionale delle Grigne volle presto sperimentare le frastagliate torri e le pareti della Grignetta. Per chi è destinato a più grandi cose, è innato il senso di andare alla ricerca di emozioni sempre più gratificanti, che per lui significava approdare dove la salita porta alle quote più elevate e la scalata diventa più impegnativa. Ormai non è più un alpinista sconosciuto, e sembra che per lui si stia aprendo un periodo di particolare fortuna. Questo succede quando i lunghi mesi del servizio militare di leva li va a svolgere ad Aosta, come istruttore nella Scuola Militare Alpina. Qui trova l’ambiente ideale per sbizzarrirsi a scalare tutto quello che vuole, ma ha anche l’opportunità di conoscere a fare amicizia con i grandi dell’alpinismo che frequentano le Alpi. 

Con alcuni di loro riesce anche ad effettuare importanti e rare ripetizioni di vie lunghe ed estremamente difficili sulle imponenti pareti del Monte Bianco, dove nel 1956 inserirà il suo nome insieme a quelli di Cesare Giudici, Dino Piazza e Carlo Mauri nella prima ripetizione della via Bonatti sul pilastro Sudovest al Petit Dru. Ancora qui, nel 1957, insieme a Partini guadagna la prima ripetizione della via Rèbuffat all’Aiguille de la Brenva, e la prima ripetizione, con Giuseppe Conti, della via Ottoz all’Aiguille Croux. 

Sono però le candide rocce delle Dolomiti a imporsi come teatro prediletto per le sue arrampicate, dove si afferma soprattutto nella veste di uno dei più quotati protagonisti dell’alpinismo invernale tra gli anni ’50 e ’60. In particolare la sua preferenza cade decisamente là dove si svolgono le vie storiche sulla Civetta. Non può esserci dubbio alcuno che questa sia la montagna che lo ha letteralmente stregato, dove si è espresso al massimo delle sue potenzialità e dove ha conquistato proprio quei tanti successi che hanno fatto di lui uno degli alpinisti più eminenti della sua generazione. Ma se il suo nome è legato strettamente alla Civetta, alla Torre Trieste, Torre Venezia, Pan di Zucchero, Cima del Bancòn, Torre delle Mede, Cima di Terranova e Cima Su Alto, altrettanto si può asserire che il nome Civetta riconduce immancabilmente a lui. Per questo motivo, pur rinviando alla cronologia della sua più significativa attività alpinistica nel riassunto che segue a parte, a questo punto non è possibile evitare di indicare quali siano le orme più indelebili che ha lasciato sulle pareti di questa montagna: una via nuova direttissima sulla Torre Trieste, realizzata con Ignazio Piussi nel 1959; una via nuova sullo spigolo Sudovest della Torre Venezia, realizzata nel 1960; una via nuova sulla parete Est della Torre delle Mede, realizzata nel 1961; la prima invernale della parete Nordovest – diedro Livanos – sulla Cima Su Alto, realizzata nel 1962; una nuova via sulla parete Nordovest al Pan di Zucchero, direttissima (con variante alla via Tissi) realizzata nel 1962; la prima invernale della via Solleder sulla parete Nordovest della Civetta – una vita aperta nel 1925 e considerata autorevolmente importante per aver segnato l’inizio del sesto grado nelle Dolomiti – realizzata nel 1963, in cordata con Ignazio Piussi e Toni Hiebeler, in 8 giorni e con 7 bivacchi; la prima invernale della via Gabriel-Da Roit sulla Cima del Bancòn, realizzata nel 1967; la prima invernale della via Tissi sullo spigolo Ovest della Torre Trieste, realizzata nel 1967; una via nuova sulla parete Est dello Spallone del Bancòn, realizzata nel 1968. 

Era necessario dilungarsi su queste, che sono comunque solo alcune delle assidue frequentazioni di Giorgio Redaelli nella sua Civetta, per evidenziare che la sua presenza nel gruppo dolomitico del Civetta tra l’Agordino e la Valle di Zoldo, nel Bellunese, non è sfuggita e tanto meno dimenticata dalle Associazioni locali, così che perfino a distanza di molti anni, nel luglio del 2016, a Santo Stefano di Cadore gli era stato conferito “alla carriera” il celebre premio alpinistico “Pelmo d’Oro”, giunto alla sua diciannovesima edizione. Analogo riconoscimento era comunque stato preceduto nel 1999 dall’assegnazione del “Premio SAT” per l’alpinismo, attribuito dalla S.A.T. – Società Alpinisti Trentini. 

Sembra del tutto superfluo voler precisare che il suo rapporto con la montagna è andato oltre l’alpinismo e non sia rimasto limitato al periodo della sua intensa attività. La sua passione per la montagna si è espressa continuamente nelle varie iniziative, che vanno dall’organizzazione delle sue serate illustrate con diapositive e filmati, alla cura formativa indirizzata alla pratica dell’alpinismo. Sotto questo aspetto il suo impegno è risultato incisivo nella fondazione di scuole per l’alpinismo, precisamente nel 1959 per la scuola “Gino Carugati” del CAI Mandello e nel 1966 per la scuola “Attilio Piacco” del CAI Valmadrera, diventandone in entrambi i casi il direttore per alcuni anni. 

La montagna l’ha infine potuta godere serenamente nella pace del suo rifugio “Aurora”, che aveva costruito all’inizio degli anni settanta ai Piani di Artavaggio, sopra Moggio, in Valsassina, e che gestì insieme alla moglie Aurora fino al 2006, dopo che nel 2002 era stato accolto nel Gruppo Ragni della Grignetta come socio onorario. 

Per lo straordinario modo come Giorgio Redaelli ha amato la montagna e praticato l’alpinismo, c’è da augurarsi che la memoria di lui possa resistere al tempo e alle mode, soprattutto riguardo al territorio che lo ha applaudito in vita e che ancora si vanta di una tradizione davvero speciale. 

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