2022-02-04

Pablo Atchugarry e quella forza di lasciare sul marmo il proprio segno, delicato e possente

“La consapevolezza del proprio interiore dictat creativo è la forza della sua espressione artistica e lui, come elemento della natura, si muove da un capo all’altro del mondo”

 






di Claudio Redaelli Era la fine degli anni Settanta e Pablo Atchugarry realizzava la sua prima scultura. La possibilità di scolpire il marmo di Carrara coronava un sogno della sua fanciullezza e segnò profondamente quella che sarebbe poi stata la sua vita di apprezzato e affermato artista.

Di quel suo incontro con il marmo lui stesso parlava nel libro Museo Pablo Atchugarry dato alle stampe anni fa con il patrocinio del ministero dell’Educazione e della cultura dell’Uruguay.

“L’incontro con il marmo - scriveva Atchugarry - fu tanto intenso da farmi dimenticare altre tecniche, altri materiali, altri incontri. La sensibile e nobile materia, così pura, esige una dedicazione completa: è capace di custodire i segreti più intimi dell’artista, le sue emozioni”.

Poi il riferimento a un altro incontro: quello che in quegli stessi anni gli fece scoprire Lecco e il suo lago, dove avrebbe da quel momento iniziato a lavorare “tra le acque profonde e silenziose e la solennità e grandiosità delle montagne”.

Da lì, dopo avere ascoltato il silenzio di tonnellate e tonnellate di marmo passate attraverso le sue mani, ecco l’idea di documentare e “racchiudere” quegli incontri in un museo. Ed ecco il libro (a curarne la stampa fu l’Editoria grafica Colombo, allora con sede a Lecco e successivamente trasferitasi a Valmadrera) “Alla ricerca del sublime”, introdotto da un significativo testo di Luciano Caprile, il quale scriveva che la precocità espositiva di Pablo segnò decisamente la via da intraprendere con il consenso della famiglia, che ne intuì le ampie e ancora misteriose possibilità.

“Pablo è un bambino perduto in un universo lontano che neppure io posso penetrare”, ebbe a dire la madre, orgogliosa e ad un tempo preoccupata. Era, quello, il tempo del disegno e della pittura, a cui ben presto si associò l’interesse per la scultura attraverso la manipolazione della creta e del cemento.

“Atchugarry - scriveva Caprile - si esprime sulla tela con una materia fluida che si dispiega ascensionalmente nella metamorfosi liquida di volti tirati, allungati, convergenti in un coro di voci di supplica. Il discorso “espressionista” di Munch viene accentuato e adattato a una concezione ancora più arcaica e primitiva del dolore che si traduce in maschera, in rito espiatorio”.

“Pablo è un classico - aggiungeva più avanti l’autore del testo - perché sa attingere la purezza della forma dagli antichi greci, quella forma che rimane in perfetta sintonia con tutti i componenti della narrazione. Pablo si colloca fuori dal tempo perché estrae dalla natura il succo del divenire che non conosce il momento bloccato nell’evento, ma proietta l’evento stesso nell’ambito più ampio di un’armonia che ci compete da sempre”.


Carico di significati anche l’intervento di Tiziana Leopizzi, che nel libro (a curarne la selezione e gli impianti fu Alberto Locatelli) ricorda come il mondo di Pablo Atchugarry sia fatto di marmo, di polveri, di stridori di macchinari, di rumori assordanti, di pericolo, di estrema concentrazione, di spossante fatica fisica, eppure paradossalmente sia un mondo fatto di serenità, di armonia, di sensibilità e di gioia di vivere.

La scultura è stata la grande sfida lanciata da Atchugarry attraverso la validità sempre rivoluzionaria dei classici nella creativa babele dei linguaggi che convivono nel mondo dell’arte contemporanea.

“La consapevolezza del proprio interiore dictat creativo - osservava Tiziana Leopizzi - è la forza dell’espressione artistica di Pablo, che come elemento della natura si muove da un capo all’altro del mondo e come il vento lascia il proprio segno delicato e possente sul marmo, suo prediletto messaggero”.

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