2021-11-08

Puntata n° 2 – Rubrica Letteraria LA NEGAZIONE


Mia madre dunque, tornando ai fatti, s’era risolta ad andare a servizio. Non, un impiego fisso, che non avrebbe retto; ma gravoso ugualmente, data la sua gracilità, la casa, e il campicello cui badare. “I padroni” stavano in città e, un giorno sì e uno no, lei li raggiungeva con la corriera. Le davano da stirare, rammendare, rassettare. 

<< Preferisco lavare i pavimenti >>, proclamava, << anziché riparare i calzoni. Mi viene il mal di stomaco al solo vederne un paio!>>. 

Gli è che i figli dei padroni la mettevano in croce: acquistavano i “jeans” ai Grandi Magazzini, ma poi non erano mai abbastanza stretti; abbastanza “calzanti”, come dicevano loro.  Oppure erano lunghi, e allora bisognava accorciarli, ma non troppo: mezzo millimetro in più, e la costringevano a disfare. Se li portava anche a casa, e ci lavorava fino alle ore piccole. << Mi fosse caduta la lingua>>, sospirava, << prima di dire a quei pignoli che me la cavo come sarta!...>>. 

Era stanca, poveraccia, e in quelle cinque ore per notte non dormiva: moriva. 

<< Non sogno>>, diceva, << non ricordo, non sento nulla; come… come fossi proprio morta!>>.  Non aveva neppure più la forza di sorridermi, la sera: si chinava a baciarmi credendo di sorridermi, ed era soltanto una smorfia. 

Ma non appena la Rosa le annunciava “novità”, gli occhi riacquistavano miracolosamente vivezza:  << Va’,  Robertino!  Va’ al bar a telefonare a papà che domani andremo senz’altro a trovarlo! >>.  Indi si affrettava a limarsi le unghie, a farsi la doccia, i capelli. Il trucco no: non era mai stato nelle sue corde.  

Lui insisteva: << Perché non ti metti un po’ di fard’ sulle guance?  Sei pallida, Aurora, e quel pallore t’invecchia! >>. 

Solo per intuizione lei aveva scoperto che ‘fard’ stava per ‘belletto’:  

<< Sono una donna di paese, Federico; cosa direbbe la gente? >>… 

<< Ma l’abito, però, potresti accorciarlo…   E cambia toilette, santo cielo: è la terza volta che ti vedo così!...>>. 

Lo diceva a fin di bene, nel timore che, lui lontano, si trascurasse.  E lei a spiegargli che, di corsa com’era, non aveva fatto a tempo ad afferrare che la borsetta e le chiavi…; dandogli così modo di immaginare la sfilza di “completi ultimo grido”, di cui doveva straripare l’armadio… 

 

<< Ecco, Silvia >>, l’aveva presentata un giorno: << questa è la mia dolce metà! >>.  

La mamma aveva abbassato il capo confusa, mormorando un “piacere” estraneo a lei stessa.  Guardava ipnotizzata le mani bianche dell’altra, le unghie smaltate, l’anello importante. Silvia non era che una delle belle donne che in quel luogo, non propriamente di svago, sembravano trovarsi come in vacanza. Curatissime, sorridenti, il volto emaciato nascosto sotto un maquillage così sapiente, da ingannare chiunque.  Bisogna dire che molte erano soltanto lievemente ammalate, o si avviavano a guarigione completa. Era palese come le condizioni finanziarie di Silvia, fossero eccellenti.  << Occupa un appartamento intero >>, ci aveva detto papà.  

<< Un appartamento intero, pensate, tutto per sé. E il marito le manda mazzi di rose in tutte le stagioni… primizie >>.                                                                                    

Certo fra Silvia e la mamma era quest’ultima la più malata, a vedersi… E quanto al mio genitore, era sempre stato un po’ fatuo, ma in quell’ambiente, con quelle amicizie, lo divenne ancor più. Si allontanò in modo allarmante dalla realtà: la realtà, ormai, era il mondo di Silvia: quello a cui aveva sempre aspirato, del resto. Avevano costituito un clan affiatatissimo, fatto di artisti,  blasonati, gaudenti, arricchiti.  

Avevo faticato a valutare appieno la pateticità della situazione, per poi rendermi lucidamente conto che quel loro sostenersi, adularsi, esaltarsi era, quantomeno, incostruttivo. 

 

Poi, un mattino d’estate ci era giunta una missiva di papà, chilometrica, che esprimeva, in pratica, il seguente concetto: a giorni Silvia, la signora, Silvia, come la chiamava, sarebbe stata dimessa. Clinicamente era guarita, le era stato tuttavia consigliato di non tornare a Milano, data l’opprimente calura. Puntasse su una località tranquilla, di collina o montagna, piuttosto. 

<< Mi chiedevo, Aurosa >>, concludeva, << se il nostro paesello non sarebbe l’ideale. La casa è modesta, ma grande. C’è la camera che riserviamo a Marco, quando viene da Novara… Potreste convenire su un tanto…; che so ?... A questo aggiungi i doni che, generosa qual è, non vi farebbe mancare… il fatto che, come donna, sarebbe più quieta, ordinata… Insomma, Aurora, fa tu; pensaci bene, poi sappimi  

dire ! >>.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                           

Mia madre, in verità, avrebbe preferito quel ciclone di Marco. Con una “tipa” simile, come trattare? Esprimersi?... Ma sarebbe poi venuta sul serio nella nostra catapecchia?... 

Era venuta sì, e le era immensamente piaciuta. La mamma era così impacciata, che faceva star male a guardarla, ma alla fine s’era sciolta. Come tutte le vere signore, Silvia aveva il dono di mettere chiunque a suo agio... 

Quanto a me, m’ero innamorato di Silvia al primo incontro a Sondalo; anche se allora non l’avevo capito. Cioè, m’ero rifiutato di ammettere che un “sette etti” del mio stampo, potesse invaghirsi di una trentenne. 

<<Trenta>>, aveva detto, <<Mi danno tutti trent’anni, ma ne ho qualcuno in più…>>. Senza peraltro specificare quanti. E poi, a Sondalo, in pantofole e vestaglia… per quanto eleganti…  Ma fuori era un’apparizione. Tale, almeno, m’era parsa. 

<<Robertino, tesoro… è in casa la mamma?>>. 

<<Ora guu-ardo…>>. E le orecchie mi si erano fatte scarlatte. Nemmeno nei miei sogni più audaci una dea aveva varcato la nostra soglia!... 

Dopo il commiato, tutto m’era parso tutt’al più un bel sogno, e solo la sigaretta con la sua impronta rossa, fumata soltanto a metà, era rimasta a testimonianza della sua presenza reale. Nel trambusto che ne era conseguito, l’avevo fatta sparire, avvolta in una carta argentata. Quindici giorni in contemplazione di un feticcio…, ma ora l’avremmo finalmente avuta con noi per due mesi interi! 

 

Anche Marco era inaspettatamente sopraggiunto da una settimana circa. Un amico l’aveva invitato al mare, ma poi aveva cambiato programma, ed eccolo di nuovo fra noi. Eravamo affezionati a Marco, in special modo io, che avevo fatto un’ autentica malattia all’idea che disertasse. Non era propriamente un cugino. Lo era così alla lontana, con tanti miscugli di sangue, che solo la nostra sfegatata amicizia ci induceva a definirci tali. Più semplicemente, era il nostro pensionante. Quello di ogni estate; l’unico e fisso. E non l’avevamo privato della sua stanza, nient’affatto invidiabile, visto che era a nord e anche abbastanza esigua. Per la signora, mamma aveva approntato quella di sopra, la più luminosa e vasta, anche se la scala di legno per la quale vi si perveniva era un po’ accidentata. 

<< Deliziosa! >>, aveva detto,  << qui non disturberò nessuno >>.  Sapeva di Marco, di tanti handicap piccoli e grandi, ma non vedeva che il lato buono di tutto.  

<< Nell’attesa che la fascinosa dama faccia la sua comparsa >>, aveva proposto Marco, che s’era infilato una maglietta sulla pelle nuda e dei jeans così tesi, che ci si attendeva scoppiassero da un momento all’altro, <<perché non ci facciamo un giretto, tanto per darti l’opportunità di sfoggiare la giacca?>>. 

<<Ma se l’hai definita “una schifezza”?... “Un obbrobrio?...>>. 

<< Èuna sciccheria, a dirla giusta, frescone! Roba che i tuoi amici schiatteranno dalla rabbia… >>. 

<< Allora la tengo?>>. 

<< Certo, che la tieni. <<Perché? Pensavi di buttarla?...>>. 

<< Ma la signora non dirà?... >>. 

<< Oh, con stà signora! Ancora non l’ho vista, e già m’è indigesta>>. 

 

Arrivò giusto quando ci approssimavano a metterci a tavola, indossando un abito deschilé di seta verde, come i suoi occhi, i capelli fluenti e neri, e Marco aveva già arrotondando le labbra pronto a fischiare, quando un buon santo l’indusse a trattenersi. In un rapido sguardo, io e la mamma ci comunicammo il sollievo. Si levò con studiata lentezza, invece, e le tese inebetito la destra. Ma lei lo abbracciò: aveva abbracciato noi due e, quale parente, non v’era ragione per non fare altrettanto. 

Instaurò da subito un tale clima di cordialità, che anche mamma ne fu conquistata.  

Sapevamo di lei l’essenziale: quello che papà ci aveva raccontato. Da una serie di aborti, l’ultimo dei quali a gestazione così avanzata che non si sarebbe previsto, era uscita distrutta. Ne era conseguito un esaurimento, sfociato nella malattia polmonare ben nota. Il marito, un grosso industriale nel ramo metallurgico, pur adorandola, la raggiungeva fra un aereo e l’altro, fra un concordato e una riunione d’affari, sicché aveva tutto il tempo per sentirsi sola, e nel suo senso d’inutilità, di rimpiangere le scene. Era un’ex attrice, e ci teneva tanto a farlo sapere, che ogni due parole il teatro ricorreva. 

<< E’ stato a Firenze, Marco?... Un capolavoro: favolosa! Vi ho trascorso alcuni giorni, in autunno: con la compagnia teatrale, voglio dire. Però l’ho vissuta intensamente. Neanche la notte, dormivo>>.  <<Ma lo sa, signora Aurora che il destino è proprio buffo?... Se mio marito non avesse avuto il biglietto gratis, mica ci sarebbe venuto quella sera al “Piccolo”. Non ci saremmo conosciuti, e oggi… forse sarei affermata, oppure… la moglie di un altro. Chissà!>>. 

Dio del Cielo, quanto parlava! Ne ero avvinto: Incantato. La paragonavo alla mamma, così stanca, che annuiva soltanto. Ora Silvia era come… come se ci avesse portato il mondo, il mondo intero, in casa! 

 

<<Mangia poco>>, azzardava, ogni tanto, la mamma. <<Proprio con gradisce altro?...>>. 

<< Io?... Ma io sono una botte! Sei chili mi hanno costretta ad ingrassare, quegli incoscienti…. “Mangi!”, insistevano, “Mangi!”. Ed io obbedivo, ma fino ad un certo punto, perché la salute, va bene, ma senza trascurare la linea… >>. 

Dal “Lei” era passata al “tu”, quasi senza avvedersene. Poi aveva insistito. <<Esigo che mi chiamiate Silvia!>>. 

Quanti buffetti scherzosi, a me che resistevo! Quanti finti bronci! Ma come riuscirci, gran Dio?... Pure venne il giorno che Silvia fu soltanto Silvia. Semplicemente, anche per me. 

 

Potrei descrivere ogni istante, ogni parola, ogni silenzio di quei due mesi lunghi e brevi insieme; eccezionali certo. Ma è superfluo. Mi atterrò agli eventi determinanti, quelli che dovevano “segnarmi”. Il fascino di lei, inconfutabile senz’altro, aveva su di me una presa scontata per troppe circostanze. Adolescente, sprovveduto e ingenuo, sognatore per parte di padre, pensai davvero d’essere stato baciato in fronte dalla buona sorte per il solo fatto che mi respirate accanto. E siccome la suggestione induce all’ottimismo, a un ottimismo folle in amore anche l’individuo più pessimista, m’ignorai. Ignorai il nanerottolo né carne né pesce, lo gnomo, come se alla sua luce mi fossi trasformato. Amavo: dunque ero adulto! E un adulto capace di sentimenti tanto intensi, può sperare. Ecco, io volli pazzamente illudermi di questo: che per una sorta di telepatia, o magico intervento, lei percepisse il mio amore. Assurdo, impossibile, forse, ma a maggior ragione disperato. Mi sentii protagonista di una “love story” senza precedenti, un eroe tragico, che come tale avrebbe sofferto; ma ne valeva la pena. Per delusione, no. Mai mi sfiorò il sospetto che avrebbe potuto accadere!.  

 

(continua) 


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