2021-04-15

Lecco e la Resistenza. Quando monsignor Ferraroni scrisse: “Ho avuto paura di dover uccidere”

“Era bello lo sforzo di provvedere a quanto necessitasse ai giovani ritiratisi sui monti: indumenti, documenti e così ci si trovava dentro quel tipo di vita, bello, romantico direi, in un certo senso entusiasmante”





di Claudio Redaelli  - Marzo 1976, a Lecco si tiene la cerimonia di decorazione del gonfalone con la medaglia d’argento al valor militare conferita alla città. Un riconoscimento e al tempo stesso un impegno: quello di operare per il consolidamento della Costituzione repubblicana, per la difesa della democrazia e della libertà, ideali nobili per i quali caddero tanti combattenti della Resistenza. La storia del capoluogo lariano, del resto, manifestò nel periodo della Liberazione un particolare momento di partecipazione popolare alla lotta per la libertà contro la dittatura nazifascista.

“Lecco e il suo territorio - scriveva l’allora sindaco Rodolfo Tirinzoni in quella circostanza - rinnovano, tra il settembre 1943 e l’aprile 1945, l’impegno coraggioso dei padri che nella primavera del 1848 si erano schierati contro la presenza austriaca in Lombardia, alimentando di uomini generosi le formazioni di patrioti che dallo Stelvio a Milano combattevano contro lo straniero”.

Il conferimento della medaglia d’argento alla città di Lecco (la cerimonia del ’76 si svolse alla presenza di Sandro Pertini, all’epoca presidente della Camera) fu un momento importante e significativo. Non a caso la Repubblica nata dalla Resistenza esalta il sacrificio di quanti caddero sui nostri monti, nelle nostre valli, lungo le nostre strade. E quel solenne riconoscimento ricordò ai giovani quanti rischiarono la vita, la prigionia e le rappresaglie per aiutare perseguitati politici, prigionieri stranieri fuggiti dai campi di raccolta, ebrei, patrioti feriti e affamati. Tanti episodi di eroismo e generosità.

Per celebrare ancor più degnamente quel prestigioso riconoscimento venne data alle stampe una pubblicazione in cui venivano racchiuse in testi e in immagini le lotte combattute durante il periodo della dittatura fascista. Gruppi operai nelle fabbriche, circoli proletari, ambienti di intellettuali e studenti avevano del resto sempre alimentato la speranza di un ritorno alla democrazia e alla libertà.

Il 27 luglio 1943 Lecco aveva visto sorgere un comitato unitario cittadino cui avevano aderito tutti i partiti antifascisti: dalla Democrazia Cristiana ai comunisti, dai socialisti ai repubblicani fino al Partito d’Azione. Era, quella, la premessa della Resistenza, che si sarebbe manifestata esplicitamente l’8 settembre.

“Nel periodo storicamente conosciuto come “i 45 giorni di Badoglio” - si legge in Lecco e il suo territorio nella lotta di Liberazione - la città e il circondario registrano un’intensa attività politica su basi democratiche e popolari. I complessi industriali vedono le nuove commissioni interne in sostituzione dei sindacati fascisti, risorgono i partiti democratici nelle loro diverse componenti, le organizzazioni sindacali e cooperativistiche. Le commissioni interne nelle fabbriche sono animate da un gruppo di antifascisti di vecchia data e di giovani patrioti. Alcuni di loro perderanno la vita nei campi di concentramento o dinnanzi al plotone di esecuzione  per la fedeltà agli ideali di democrazia, di libertà, di emancipazione delle classi lavoratrici”.

L’8 settembre trovò pertanto Lecco non impreparata a lottare, anche con le armi, contro l’occupazione nazista e la risorgente dittatura fascista. Le formazioni partigiane si costituirono sulle montagne di Lecco e la popolazione - soprattutto i lavoratori e i contadini - fu vicina alle nascenti formazioni della Resistenza con aiuti di ogni genere.

Lecco cominciò così a rappresentare il cervello di una vasta organizzazione che si sarebbe ben presto delineata in tutta la provincia. Vennero poi mesi di dura lotta, di rappresaglie, di attacchi alle formazioni partigiane. E alla fine il bilancio sarebbe stato di 349 partigiani caduti sulle montagne lecchesi o in terre lontane, altri 302 feriti, circa 800 finiti nei campi di concentramento nazisti.

“Il ricordo del loro sacrificio, l’impegno politico della loro scelta in quell’ora tragica - si legge nelle pagine della pubblicazione data alle stampe dal Comune di Lecco - indicano la nostra città meritevole del conferimento della medaglia d’argento al valor militare per la partecipazione e le perdite subite nelle giornate della Resistenza e della Liberazione”.

Quindi via alle testimonianze di monsignor Teresio Ferraroni, vescovo di Como e cittadino benemerito di Lecco, dell’onorevole Gabriele Invernizzi, di Spartaco Mauri e del giornalista Giulio Alonzi.

Monsignor Ferraroni, in particolare, scrisse: “Nacque in quel tempo il mio impegno di fraternità, di libertà ed erano belli quegli incontri con i giovani ritiratisi sui monti. Era bello quello sforzo di provvedere a quanto loro necessitasse: indumenti, documenti ovviamente falsi, e così ci si trovava dentro quel tipo di vita, bello, romantico direi, in un certo senso entusiasmante, per il quale non si pensava nemmeno al pericolo”.

E ancora: “Poi gli incontri con gli uomini della Resistenza. Don Giovanni Ticozzi lo ricordo nostro preside al Liceo di Lecco, bellissima figura di uomo, di prete, di amico e di maestro. Poi l’onorevole Celestino Ferrario, al quale mi aveva indirizzato proprio don Ticozzi. Di lui mi aveva parlato un giorno in cui, incarcerato e poi mandato al confino, l’avevo incontrato e gli avevo detto: Beh, don Giovanni, adesso che voi siete fuori gioco che cosa possiamo fare? Mi ricordo che don Ticozzi mi disse: “A Lecco vedi di incontrare il Celestino Ferrario e a Como cerca di trovare Mario Martinelli”. E poi il giornale Il Ribelle, che usciva quando e come poteva. L’incontro con le Fiamme verdi e la preparazione per il dopo, perché ricordo che ciò che preoccupava me, che non ero combattente, era appunto la preparazione per il dopo. Quanti incontri dal settembre del ’43 all’aprile del ’45, quanti incontri sui temi della democrazia, dei partiti, dei sindacati, con i primi tentativi di organizzazione operaia che si andavano facendo, anche da parte nostra, attraverso i “raggi”, che poi sarebbero diventati, a guerra finita, le nostre Acli”.

Infine una curiosa testimonianza. “L’unica volta che ho avuto veramente paura - scriveva monsignor Ferraroni - fu quando una notte mi lasciai convincere dai miei amici a uscire anch’io con un’arma. Vi assicuro che non era la paura di morire, ma quella di dover uccidere. Una paura terribile… E da quella volta non ho più voluto avere armi”.

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