di Renato Frigerio - Riprendendo un certo punto di vista dell’alpinismo si ritiene di dover fare riferimento in special modo alla storia scritta dall’inglese Claire Eliane Engel (editore Einaudi, con appendice “italiana” di Massimo Mila, 1965). Proprio quando si conquistavano le ultime cime vergini sulle Alpi e nel frattempo la minoranza tra gli alpinisti già s’accingeva ad aprire “vie nuove” sulle medesime. Si tratta di un’opera fondamentale per ricostruire l’ideologia di base sulla quale l’alpinismo si è andato formando ed evolvendo.
Ed è a questo proposito che sulla scena entra Lammer, grande protagonista dell’alpinismo di conquista, inteso sempre per conseguire risultati che portano alla vittoria e al successo. L’ideologia dello stesso Lammer, in fondo, era fedele e rispettosa della tendenza, e aveva soltanto (per chi intendesse criticarla) il torto della sincerità dei sentimenti espressi pubblicamente…
“Io ero il più forte, io ero la passione, io ero lo scherno rabbioso, io ero il verbo della potenza, io ero il demone”. È solo una citazione, tratta da “Fontana di giovinezza” (titolo originale “Junghorn”) di Eugen Guido Lammer, scritto attorno agli anni venti del secolo 800 e pubblicato in italiano dall’editrice “L’Eroica” a Milano, significativamente degli anni cupi della Repubblica di Salò.
Lammer scrisse il suo “Fontana di Giovinezza” col quale dichiarò la propria sete di dominio sulle montagne e l’assoluto personale bisogno di cimentarvisi. E lo fece esaltando le “vecchie” teorie e introducendone altre nuove, brutalmente sincere, magari sostenendo tutto e il contrario di tutto, a scanso di equivoci…
Raccolse intere schiere di adepti – di eroi disponibilissimi – soprattutto quando l’alpinismo e i suoi eroi furono elevati negli anni successivi, per scopi politici, a simbolo di virtù guerriere, patriottiche, religiose e nazionali. Ogni regime esprime i propri arditi e quello “vittoriano” (inglese) di metà Ottocento vi contribuì non certo di meno di quello nazionalista italiano degli anni ’30 e poi di quello “nazista” (austro-tedesco) degli anni ‘30/40 o, infine, di quello “maoista” (se è vero che, ancora nel 1975, gli alpinisti cinesi issarono sull’Everest un bandierone rosso e grandissimo… Nel 1975 erano già alcuni anni che negli Stati Uniti gli arrampicatori più giovani si cingevano la fronte con le fettucce simbolo degli hippies.
L’attività alpinistica di Lammer, viennese, nato nel 1863, si svolse sulle montagne classiche dell’Austria e della Svizzera negli ultimi decenni del secolo Ottocento, quando si stava affermando, accanto al tradizionale alpinismo con guida, quel nuovo fecondo mondo di affrontare le montagne che faceva affidamento solo sulle proprie forze e sulle proprie capacità.
Ma Lammer va ben oltre i limiti ragionevoli d’un rischio inevitabile, ma contenuto e calcolabile. Il suo folle delirio di potenza lo spinge ad arrampicare sempre solo, senza corda, senza assicurazione, nelle condizioni più assurde e rischiose, su neve malsicura, su rocce friabili, nella nebbia e nella bufera; lo spinge ad un “aggravamento cosciente delle difficoltà”, a tentare “l’iniziativa veramente folle di voler domare la parete nello stato di neve fresca più pericoloso”, come afferma a proposito della sua ascensione alla parete Nordovest del Grossvenediger (3674m), in Austria, nella catena alpina dei Tauri, Tirolo orientale, .
Se fossi uno psichiatra, potrei certamente definire clinicamente la malattia di cui soffriva Lammer. È incapace di trovare uno scopo qualsiasi nella vita propria e in quella altrui.
È evidente in lui il disprezzo per la civiltà della sua epoca: frequenti sono gli accenni ai vicoli malsani della civiltà, all’almanaccare inerte della ragione, alla “scoria ripugnante della cultura” – e il pensiero non può non andare alle parole di Goebbels – alla decomposizione di tutti i valori dell’umanità. In tutto questo non c’è nulla di particolarmente sorprendente, nel contesto della civiltà borghese decadente di fine secolo, se non l’esasperazione delirante delle conclusioni che Lammer trae dalle proprie convinzioni.
Così non può sorprendere che egli trovi nel pensiero di Nietzsche la stella polare che guiderà la sua azione. Dal nichilismo, dall’assenza di ogni scopo e di ogni sensibilità umana e sociale, al rifiuto di ogni morale alla volontà di potenza, il percorso era già stato aperto dal filosofo tedesco. E la volontà di potenza frustrata erompe spesso dalle righe del libro: “Debbo imprimere il mio suggello su molte cose e molti uomini”. Sulla vetta del Gran Pilastro, l’ebbrezza della vittoria è dovuta al pensiero che “Il mondo fu stretto ora e posseduto dalle mie braccia distese”. Ancora “Per mezzo dell’azione compiuta noi entriamo irrevocabilmente nel Walhalla dell’assoluto. Ogni qual volta attraverso lo sforzo e il terrore riuscii a conquistarmi una nuova ascensione oppure una nuova via, vidi splendere davanti ai miei occhi queste parole di fiamma: ora io sono diventato più forte dell’onnipotenza divina”.
Concezioni dualistiche misticheggianti, evidentemente mutuate da Nietzsche, ma non pienamente comprese né elaborate dall’intelletto, da miti e simboli che nella mente malata divengono demoni, scatenati contro di lui nella tempesta, nelle valanghe, nelle scariche di sassi e, a questo punto, Lammer si scaglia nella sua disperata battaglia, innalzandosi come il titano o un eroe che il mondo misero e marcio degli uomini comuni – di coloro cioè che amano, lavorano, sorridono e piangono, che vivono, insomma – non è degno di accogliere. Ma un altro aspetto del suo carattere – o meglio, si potrebbe dire, della sua malattia – è determinante nel guidare le sue azioni e i suoi pensieri. “Tu sei crudele e vuoi recare dolore, però da uomo superiore lo fai solo a te stesso. Questo è il senso della tua aspra ascesi alpina. Tu ti inebri del godimento della tua resistenza d’acciaio e della tua forza di volontà… Il piacere è dunque duplice: la gioia attiva nella crudeltà contro te stesso e il piacere passivo nel sentire la forza del proprio animo in tutti i tormenti liberamente voluti… La voluttuosa dolcezza di questi godimenti è pregustazione della gioia celeste”.
“Buttarsi coscientemente nel pericolo di morte - afferma Lammer - è la più alta voluttà; quando, soli tra i seracchi, la perdizione stende cento tentacoli verso di noi come un gigantesco polipo, quando ogni passo può spalancare la porta delle tenebre, allora si assaggia una delle gioie più selvagge che cuore d’uomo sia capace di sostenere. Il più dolce di tutti i godimenti che la vita può offrire è bagnar le labbra alla coppa della morte! Mettersi coscientemente e volontariamente nel vero pericolo di morte, in cui i piatti della bilancia del vincere e del perdere effettivamente si equilibrano è la cosa più alta e più augusta che possa provare il sentimento dell’uomo”.
Tutto questo penso richieda pochi commenti. Persino il Marchese De Sade sapeva, pur nella cupa descrizione delle sue più truci perversioni, mantenere in fondo un filo sottile di umorismo e di ironia, umorismo e ironia di cui il “nostro” è totalmente e assolutamente privo.
C’è chi, sull’onda di un – per me ancora inspiegabile – recupero “da sinistra” di Nietzsche, sul finire degli anni settanta ha voluto giustificare Lammer, come colui che tende a realizzare il proprio karma sapendo coscientemente di mettersi su un cammino di dolore (salvo poi non spiegare che cosa, invero, sia il karma nel contesto, storicamente determinato, della civiltà occidentale). Non so, abituato a misurare le cose col metro, forse limitato, ma affidabile, della ragione umana, vedo piuttosto in Lammer uno dei precursori della dottrina nazista (Claire Eliane Engel), i cui adepti nel mondo della montagna – e purtroppo non solo – si moltiplicheranno dopo la Grande Guerra. Per ricordare due alpinisti pressoché contemporanei di Lammer, quanto siamo lontani dalla scanzonata serenità di Sir Leslie Stephen (pubblicò “The Playground of Europe”, libro tra i più grandi classici della letteratura alpinistica) o dalla dolcezza difficile da sostenere di Guido Rey (famoso per la sua grande opera “Il Cervino” e il racconto delle sue avventure, che sono riassunte nel libro “Alpinismo acrobatico”). Con la loro vita serena e operosa essi mostrarono di aver saputo apprendere la lezione dell’antico filosofo, secondo cui è l’uomo ad essere misura di tutte le cose, e misurando le montagne – e la vita – secondo l’umana misura, seppero imprimere nel mondo dell’alpinismo segni più profondi e duraturi di quelli lasciati dalla furia cieca di Lammer, morto nel 1945.
Bibliografia in aggiunta:
titolo originale “Grenzbereich Todeszone”, 1978
edizione italiana: “Il limite della vita” di Reinhold Messner
Collana “idee di alpinismo” – Nicola Zanichelli Editore, Bologna, 1980
EUGEN GUIDO LAMMER (1863-1945)
Alpinista austriaco che fece ascensioni molto audaci durante gli ultimi vent’anni del diciannovesimo secolo, perlopiù in cordata con August Lorria. Erano entrambi sostenitori dell’arrampicata estrema senza guida, ritenendo che i pericoli oggettivi, tipo la caduta di sassi, facessero parte del gioco. Lammer in particolare era un sostenitore di questo atteggiamento, era un seguace di Nietzsche, e da vecchio fu un fervente nazista.
Fu anche un energico sostenitore del naturalismo nell’alpinismo, deplorando qualsiasi cosa che s’intromettesse tra lo scalatore e la montagna e sostenne la necessità di rimuovere qualsiasi struttura artificiale sopra il limite della vegetazione arborea, inclusi i rifugi alpini. Lammer fece anche numerose scalate in solitaria del massimo livello per quei tempi (come esempio, ricordiamo la prima ascensione della cresta Nord del Hinterer Brochkogel nel 1898). Nel 1887 Lammer e Lorria tentarono il canalone Penhall, sulla parete Ovest del Cervino e scivolarono per quattrocento metri, miracolosamente senza riportare gravi ferite. Lammer si trascinò dallo Stokje alla Stafel Alp dove chiese aiuto per Lorria. Con i connazionali Ludwig Purtscheller, insieme ai fratelli Otto e Emil Zsigmondy e al tedesco Karl Schultz, Lammer e Lorria rappresentarono un approccio alla montagna totalmente diverso dal tradizionale e furono pesantemente criticati per il loro estremismo e per l’atteggiamento da “o la va o la spacca”, che influenzò parecchi scalatori europei durante gli anni trenta. Con l’equipaggiamento moderno (che Lammer avrebbe disapprovato) la discussione è ora in gran parte accademica.
Lammer espose le sue idee e le sue esperienze in “Junghorn”, edito nel 1922 (traduzione italiana “Fontana di giovinezza”, Milano, L’Eroica, 1932).
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