2020-04-14

DICIANNOVE ANNI SENZA FERRARI MA E’ ANCORA CON NOI

Rento Frigerio - è più che doveroso mettere nella giusta luce la dimensione dello spirito irrequieto ed esigente di Casimiro Ferrari, grande personaggio, che ci ha saputo offrire tante emozioni insieme condivise. 

Per lo scalatore Casimiro Ferrari, che abbiamo indicato definendolo “personaggio”, in effetti questo sostantivo lo qualifica bene, perché normalmente riservato a persone che si sono distinte nell’attuazione della loro specifica vocazione, ponendosi ad un livello superiore di tutti quelli che praticano, in questo caso, l’attività alpinistica. Per lui dire “personaggio” non può bastare: Casimiro Ferrari è più che un personaggio, è una persona unica, che può farsi conoscere ed apprezzare solo da se stesso. 
Lui non era un tipo che si metteva in mostra, ma si impegnava in prima persona, un riferimento per tutti gli appassionati di montagna, e i successi ottenuti stanno a dimostrare la sua statura e il calibro del suo livello (come potrete rilevare dall’allegato). . 
Personalmente, per quanto ho ricevuto ed avuto modo direttamente di conoscere ed apprezzare, ho sempre ritenuto che lui volesse essere padrone del proprio tempo e solo immerso nella Natura e in particolare in Patagonia si ritrovava in questa ideale condizione. 
Come la Natura trova un equilibrio e le risorse per godere della vita, anche Casimiro cercava di ottenere dalle persone cosa andava cercando, ma chiedeva proponendo, in funzione coinvolgente a modo suo, amicizia, stima e partecipazione, sviscerandone il duplice aspetto alpinistico ed umano. 
Con la scomparsa degli intramontabili Carlo Mauri, Casimiro Ferrari e Riccardo Cassin, la città di Lecco ha perso tre personaggi leggendari e di riferimento, tre figure indimenticabili che hanno lasciato un segno e scritto la storia dell’alpinismo. 

            Buona lettura. 


QUEI MAGNIFICI ALPINISTI NUMERI UNO CHE SE NE VANNO. 
CASIMIRO FERRARI OLTRE AD UN PRESTIGIOSO CURRICULUM NELLE ALPI E NELLE ANDE HA DEDICATO MOLTI ANNI ALL’ESPLORAZIONE ALPINISTICA DELLA PATAGONIA. 



Dopo Riccardo Cassin e Carlo Mauri emerge per il valore intrinseco del personaggio, Casimiro Ferrari, nato il 18/6/1940 a Rancio di Lecco, come il “Bigio”. 
La generazione di Casimiro è forse l’ultima che conserva come retaggio, ma anche come sudditanza e sottomissione, un orgoglio smisurato, una grande voglia di ben impressionare per essere giudicati positivamente e di non fare brutte figure. Ne deriva una serietà di preparazione e di approccio, un’umiltà nell’apprendere, un desiderio di farsi notare e impressionare favorevolmente che sono un poco il seme di Lecco alpinistica. Tutti alpinisti della domenica, nessun professionista della montagna, un vivaio inesauribile. 
Difficile dire cos’ha dentro, più facile dire cosa ha alle spalle Casimiro e come lui i giovani della sua generazione. La tradizione? La passione per l’alpinismo è spontanea germinazione, ma c’è di più, amicizia, cuore, fraternità, solidarietà. C’è il seme, il fiore, il frutto, e il nocciolo per riprendere il ciclo produttivo. C’è anche l’aiuto degli altri, della città, degli ammiratori, dell’ambiente, che rende coraggioso Casimiro e i suoi Ragni. 
Dal grande Cassin, all’eclettico Carlo Mauri che si esprimeva con fasi di genialità a volte estemporanee e non solo strettamente alpinistiche, con Casimiro Lecco si è assicurata la continuità storica, nel solco dei Cassin, Dell’Oro, Vitali, Esposito, Tizzoni, Ratti precedono i Ragni della Grignetta, e il percorso continua. Per questo noi gli dobbiamo grande riconoscenza. 
La generazione di Casimiro ha inizialmente come riferimento più vicino i vari Castagna, Mauri, Bonatti, allora rifugista ai Piani Resinelli. Più facile cercare il dialogo con loro, che con i più anziani, quali Cassin. Ma l’ambizione più sentita è proprio quella di diventare Ragno, anche se solo come riconoscimento e trampolino di lancio, quale punto di partenza.
Ferrari diventa quindi il “tutore morale” di questo periodo, proprio perché risulterà sempre positivo nella sua azione in favore dell’alpinismo, con esaltanti conquiste, trascina e offre angolazioni nuove, dove sempre si esprime un forte desiderio di azione legato esclusivamente ai lecchesi. 
Questo suo modo di vedere ora può apparire superato, ma per Casimiro è stato sempre una ragione nelle scelte, una feroce passione, un amore possessivo e lacerante per Lecco. Fiero delle sue radici lecchesi, conosce la facilità con cui certe etichette possono compromettere la sua evoluzione, non dà adito a critiche, evita le osservazioni, riesce ad imporsi e a godere la fiducia di tutti, Cassin e Mauri compresi. Quando ritiene che il suo valore è da tutti apprezzato e condiviso, con la fiducia nei suoi mezzi, cerca la sua dimensione alpinistica, inseguendo nuove esperienze, consapevole che ognuno in montagna debba saper trovare la propria dimensione per sentirsi appagato. Lavora per vivere, ma si sente felice solo immerso nella natura e sviluppa uno spirito di osservazione straordinario; si applica con sacrificio alla sua preparazione atletica, che in quei momenti non aveva assunto gli aspetti specifici di oggi. Allora tutto si basava sulla resistenza fisica, sulla conoscenza tecnica delle vie percorse, mancando questa si doveva ricorrere alle informazioni degli alpinisti che ci avevano preceduto, sull’affiatamento dei compagni, su una concentrazione per affrontare l’ambiente e contrariamente ai tempi successivi solo dopo veniva quale importanza il passaggio tecnico come difficoltà da superare. Ecco perché i lecchesi effettuavano ripetizioni dopo che proprio un lecchese aveva conosciuto il percorso e l’ambiente. 
Avendo il privilegio di vivere a Lecco, con la montagna che fa parte del paesaggio, conoscendola, diventa familiare e non ti incute paura, ma ti fa capire che devi solo portarle rispetto. Soltanto che più conosci la montagna, più ti conquista, più diventa importante, soprattutto per te stesso. Dopo la gloria casalinga, vuoi uscire da Lecco, Grignetta e Resegone e Corna di Medale non ti bastano più. 
A Lecco Casimiro diventa qualcuno e lo deve alla montagna, accademia di vita, fa parlare di sé. Infatti Mauri se ne accorge e lo fa sognare parlandogli di montagne da conoscere e di tenerlo in considerazione per questo, e Casimiro è fiero di tanta attenzione. Con Mauri non perde tempo in sentimentalismi, si parlano in dialetto, parlano delle rispettive famiglie: è amicizia. Mauri qualche volta arrampica con Cesare Giudici, che è il fratello di Serena, moglie di Casimiro. Con Cassin, entrambi di carattere un po’ chiusi, burberi, esigenti con se stessi come lo sono col prossimo e sempre convinti di loro stessi, arrivano a parlare di altro e soprattutto dei loro giorni liberi passati a caccia: sono amici, si stimano, la differenza di età diventa un fatto secondario. E sì che per Casimiro non è stato tutto facile. Non essendo abile sugli sci, anche d’inverno arrampica. 
Abbiamo già detto che si svolgeva un allenamento tecnico specifico, quindi per prepararsi ad affrontare certe vie arrampica in Grigna anche d’inverno. Proprio in questa fase incappava in un incidente salendo a tiri alternati, quando si trovava come secondo di cordata, ai Torrioni Magnaghi d’inverno, nel febbraio del 1961. Sia lui che il compagno, che nel volo lo trascinava, hanno salva la vita per essere atterrati sulla neve. Il compagno però deve sopportare a lungo le conseguenze, infatti rimarrà leggermente danneggiato negli arti inferiori. 
Casimiro, dopo questa esperienza, non si sente più di arrampicare da secondo di cordata per almeno due anni, vuole essere solo capocordata. In maggio lo vediamo già salire la Tissi alla Torre Venezia e la Cassin alla Torre Trieste in Civetta! Anche durante il servizio militare alla Scuola Militare Alpina di Aosta nel 1962, deve subire una sosta forzata per del reumatismo nel sangue. Ma supera tutto con recuperi prodigiosi non solo della salute, ma dell’entusiasmo, della gioia di vivere. 
Dopo un tentativo nel 1965 per due anni come rifugista all’Alpe Sengio in Val di Lei, nella gestione del rifugio Carlo Bobbio a quota 1932m della Sezione del CAI di Lecco, ritiene che questa attività non si possa conciliare con la sua aspirazione di alpinista, troppi sono i sacrifici e le rinunce che si impongono. 
Ritorna quindi ad accumulare meriti alpinistici per allargare i suoi orizzonti. Traccia vie nuove sulle Grigne, eccone alcune: sul Secondo Magnaghi, quello Centrale, via direttissima, tra la via Ruchin e la Castagna; alla Mongolfiera, sulla parete Nordest; sulla Corna di Medale via direttissima alla parete Sudsudest. La sua prima salita formidabile per quei tempi avviene sulle Dolomiti alla Cima Grande di Lavaredo, con la ripetizione, lungo la parete Nord, della direttissima via Brandler-Hasse, una salita considerata tra le più complete e impegnative delle grandi classiche nelle Dolomiti. 
Dalle ripetizioni alla tendenza di cimentarsi nell’alpinismo invernale teso ad affrontare la natura alpina nelle sue condizioni più avverse e difficili, con la prima invernale della via Paolo VI al pilastro Sud delle Tofane di Rozes nel 1963; della prima invernale dello spigolo Nord, via Risch, del Pizzo Badile, in due giorni, nel febbraio 1965; al Castello della Busazza in Civetta, sulla parete Sudest, lungo la via Holzner-Messner, nel 1974. Casimiro aveva così sperimentato cosa si prova aggrappati, esausti, allo spuntone di una roccia fra disperati respiri e affannosi movimenti. Aveva affrontato i mutamenti di temperatura, quando il termometro scende verticosamente sotto lo zero. E adesso? Troviamo sempre Casimiro con giovani lecchesi, quasi sempre più giovani e meno esperti di lui come compagni di cordata, forze nuove, capaci ed entusiasti di stare con lui. Il 1965 è anche l’anno che vede il Comune di Lecco premiare i Ragni per l’evidenza dei loro risultati. 
Ancora una via nuova nel 1968 denominata “direttissima dei Ragni” sulla parete Est di granito del Grand Capucin, nel cuore del Bianco, compiuta in tre giorni. 
Le montagne di Lecco, le Alpi e le Dolomiti avevano offerto molto a Casimiro. Ed era Carlo Mauri che mantenendo le promesse gli offriva l’avvio di nuove soddisfazioni, chiamandolo con lui ad una avventura in campo extraeuropeo, che segnava infatti il ritorno del “Bigio” alla Terra del Fuoco nelle Ande Patagoniche del Cile. Correva il 1966 con obiettivo la conquista della vetta del Monte Buckland di 1800m, con un’equipe di sette persone. 
Una montagna che sorge quasi direttamente dal mare, un picco ripidissimo e strano tutto corazzato di ghiaccio, in una terra lontanissima. La vittoria avviene, precedendo americani e giapponesi, e superando difficoltà strutturali aggravate da quelle climatiche. 
Carlo Mauri è ammirevole come forza d’animo e Casimiro trova in lui uno degli uomini più sensibili che abbia conosciuto. Casimiro sostiene da buon lecchese e artigiano che 
“il mestiere bisogna rubarlo pigliando il meglio da tutti”… prende da Mauri e prenderà da Cassin. 
Casimiro verifica altre emozioni, paure, trova nuove risposte agli interrogativi di cosa si prova e cosa ci spinge a rischiare in montagna. Inizia quindi la sua cavalcata di testimonial dell’alpinismo lecchese. Nel gennaio del 1966, al ritorno dal Buckland ne approfitta per puntare alla normale dell’Aconcagua, in Argentina, e per allontanare con un valido test a quasi 7000m per un presunto “soffio al cuore” riscontrato da alcuni medici ai tempi del servizio militare… Che c’era di meglio se non l’Aconcagua, il monte più alto dell’emisfero occidentale. L’Aconcagua, che significa “sentinella di pietra”, è anche la più alta cima fuori dall’Asia. Questa salita all’Aconcagua risulta una prova di resistenza, di forza, di capacità di soffrire più che di abilità. Una vera scommessa fisica. Messo alla prova mentalmente e fisicamente, con criteri chiari e concreti, non subordinati ai concetti degli altri, trovi la spiegazione che conta di più: la soddisfazione personale che il potere, per arrivare al successo, quando determinazione e ambizione non bastano. 
Il ghiaccio è rotto. Le Ande diventano il nuovo campo d’azione, e precisamente l’imponente catena di Huayhuash, nel Perù. Nel 1969 con Cassin sulla parete Ovest del Nevado Jirishanca di 6126m, in otto uomini, affrontava una difficilissima ascensione. 
Nel 1972 altra vittoria. Con gli amici del CAI di Gallarate raggiunge la cima vergine del Nevado Huantsan Ovest di 6270m, nella Cordillera Blanca. Nel 1975 sulla parete Sudovest dello Alpamayo di 5945m con i Ragni conquista una via di ghiaccio compiendo un’altra splendida impresa. Nel 1979, sempre su pareti di ghiaccio con elevate difficoltà, è la volta della parete Sud del Nevado Sarapo, una piramide di 6148m, a cedere agli attacchi di Casimiro. 
Ma sempre nell’America meridionale è la Patagonia a contagiare Casimiro Ferrari, ed è l’inizio di una storia tutta sua. Le Ande Patagoniche Australi hanno la conformazione orizzontale delle grandi estensioni, non chiudono gli spazi all’orizzonte, ingannano l’occhio abituato alle Alpi. Dislivelli e distanze assumono una dimensione diversa, più ingannevole. 
E non ci sono solo vette conosciute e spettacolari come il maestoso Fitz Roy e il fantastico Cerro Torre. 
Tutto ebbe origine col tentativo alla parete Ovest del Cerro Torre di 3102m, un gigante mitologico, che si erge come obelisco e primo ostacolo verso l’Oceano Pacifico, battuto da un vento terrificante, e da questo versante quasi tutto ricoperto di ghiaccio. Nel 1958 Carlo Mauri e Walter Bonatti avevano affrontato questo Cerro Torre fino al colle tra Torre e Cerro Adela Nord, chiamato Colle della Speranza, a quota 2700m. Nel 1970 Ferrari è con Mauri e il tentativo si infrange a 250 metri dalla vetta, punto massimo raggiunto da Ferrari con Piero Ravà. La montagna e l’imprevedibilità del clima sono superiori agli uomini. Ferrari rimugina sul problema, matura un nuovo assalto lecchese, si sente più maturo, e scegliendo gli uomini si accolla tutte le responsabilità. Fra i 27 Ragni che avevano dato la disponibilità a partire, solo 12 saranno i componenti la spedizione, che si sobbarcheranno il massacrante lavoro del trasporto a spalle e con una slitta improvvisata di tutto il materiale attraverso il ghiacciaio dello Hielo Continental.
Gaston Rèbuffat diceva “Ovunque c’è una volontà, c’è una via”. Ferrari ha la carica giusta. Ed è nel 1974 che i Ragni guidati da Casimiro ritornano al cospetto del Torre. 
La spedizione raggruppa un mix di talenti, alpinisti di autentico valore, è gente pronta a sacrificarsi, con Ferrari ad assumere il ruolo preminente di regista ed attore protagonista. Dopo giorni senza mangiare, disidratati, quattro Ragni sono sul Torre: sulla vetta, superando 37 lunghezze di corda, di cui 7 attrezzate. 
Il lecchese e Ragno Floriano Castelnuovo è stato qualche anno fa sulla vetta del Torre in elicottero come cineoperatore/alpinista durante le fasi di lavorazione del film “Urlo di pietra” e appena, dopo aver visto degli spezzoni di corda ancora sulla parte terminale verso la cima, affermava che da dove sono passati i quattro Ragni: Mario Conti, Pino Negri, Daniele Chiappa con Casimiro compreso, è un’impresa da pazzi per il rischio. Ferrari dice che sul Torre ha forzato la sua concezione di non andare oltre un certo rischio calcolato, ma c’erano tutti i presupposti per compierlo, anche se non c’è mai la cima che vale la vita. 
Convinzione, uomini affiatati, le debolezze transitorie affiorate, Ferrari ha saputo dominarle con l’esempio trascinando gli altri. Sul Torre Casimiro ha solo occasionalmente sconvolto la sua filosofia che prevede esclusivamente rischio calcolato. Lì era andato oltre i limiti, oltre un certo rischio. Scalare una montagna, le difficoltà e i pericoli gli dànno gioia e senso di libertà, dalle ossessioni della vita, anche se si deve combattere per mantenere ordine nella propria mente, che essendo razionale, vorrebbe rinunciare. Capire la montagna e amarla, essere di riferimento ai compagni, questo lo esalta. La vittoria lo fa sentire umile, persino un po’ imbarazzato verso chi non c’è lì e non ce l’aveva fatta ad andare in cima. Non si può presentare alla montagna il curriculum vitae, lo status, essere un buon padre: la vittoria di pochi è il successo di tutti. Coi suoi ragazzi si sente stanco ma elettrizzato. Il suo non è un viaggio in cima ma dentro se stesso, la montagna è indifferente, dopo tutto è fatta di ghiaccio e roccia. Una vittoria come quella riportata sul Torre ti fa scomparire le ansie e le complicazioni della vita. È giusto soffermarsi sul Torre perché questo è un capolavoro di Casimiro, una pietra miliare come espressione di Gruppo omogeneo e unito: i Ragni. 
Ma Casimiro ha appena iniziato le sue assidue frequentazioni in Patagonia. A vent’anni dalla conquista del Cerro Torre Casimiro si trovava in Patagonia ed è stato oggetto di spontanee manifestazioni di affetto e festeggiamenti calorosi, tanto da rimanerne commosso. Anche in Argentina il ricordo della conquista del Torre ha un significato enorme. In Patagonia il tempo si è fermato, come condizione di vita. La velocità non ha nessuna importanza. Il ritmo frenetico del nostro tempo è sconosciuto. La misura del tempo sono l’uomo e la natura. Solo il vento è onnipresente. Contano essenzialmente i rapporti umani, la solidarietà, dove le distanze sono infinite e la sopravvivenza esiste. 
Non si formerà mai una borghesia nel senso europeo, nessuno vuole mettere radici in Patagonia. 
Solo Casimiro considerato eretico, caustico, ed agonistico a Lecco, lo è più di facciata che in realtà, da chi non lo conosce bene, accarezza questo desiderio. Non gli basta più tornarci almeno una volta all’anno, vuole viverci? Ne è affascinato. Lì vive gente generosa e la solidarietà esiste e sistema anche i casi più disastrati perché c’è ancora lo spazio per esprimerla
Nel 1976 si registra un altro grosso exploit sull’imponente Fitz Roy di 3405m, riconoscibile da lontano, inconfondibile e di comodo accesso. Ferrari vince il pilastro Est, tentato dai francesi nel ’68, dai nostri connazionali di Rovereto nel ’72 e dai monzesi nel ’73, dagli svizzeri nel ’74, a loro volta arrestatisi a 200 metri dalla vetta. La spedizione dei Ragni è di dieci alpinisti, con due in vetta, uno di questi Casimiro, dopo 8 giorni di scalata per superare 1200 metri di dislivello con difficoltà ED+. 
Casimiro con Torre e Fitz Roy trova successo e merito in campo internazionale. I risultati parlano chiaro, ma lui si trova a disagio fuori dal suo ambiente. Solo a Lecco per lui è tutto godibile. Nel 1984 vince il pilastro Nordest del Cerro Murallon di 2656m con un gruppo di sette Ragni, con quattro giorni e mezzo di scalata e uno per la discesa, con fasi di brutto tempo. È una salita tecnicamente molto difficile, che riesce solo al terzo tentativo dei Ragni, per resistenza fisica e situazione ambientale. Nel 1985 in due giorni ha ragione del Cerro Norte di 2950m lungo la parete Est. Nel 1987 cade dopo sei giorni il San Lorenzo di 3706m, con una via integrale diretta che si sviluppa sulla lunga cresta Est, con discesa dal versante Ovest. Fanno parte della spedizione altri tre lecchesi del gruppo Gamma. Siamo ai confini col Cile e sussistono notevoli difficoltà di orientamento e di natura ambientale. 
La discesa avviene per un versante inesplorato ed intricato nel quale Ferrari non finisce di stupirci per l’agevolezza con cui trova la via di discesa. Dotato di un eccezionale senso orientativo e di spirito di osservazione spiccato e del tutto straordinario, riesce a districarsi in situazioni complesse e apparentemente impraticabili. Nel 1988 ritorna in Patagonia per vincere la grande piramide del Riso Patron di 3109m. Nel 1989 ha successo in invernale tracciando una via nuova al San Valentin di 3910m, montagna di roccia e ghiaccio, che è la cima più alta della Patagonia. Nel 1992 con due giovanissimi rocciatori lecchesi del gruppo Gamma vince l’Aguja Bifida di 2394m, nel gruppo del Torre. Nel 1993 è la volta del Cerro Grande di 2751m per una via di ghiaccio. Nel 1994 con un giovane scalatore argentino trovato sul posto scala l’ottima roccia e traccia una direttissima sulla parete Est dell’Aguja Mermoz di 2732m, nel gruppo dei satelliti del Fitz Roy. Al rientro da questa montagna è accolto per i festeggiamenti significativi per il ventennale della conquista del Cerro Torre, cui prima se ne accennava l’avvenimento. 
Ma un alpinista del calibro di Casimiro non può ignorare l’Himalaya con le sue quote proibitive, con il fascino delle sue imponenti vette. Infatti nel 1985 sale l’ardita cima dell’Ama Dablam di 6856m sempre con i lecchesi e nel 1986 effettua un tentativo allo Shisha Pangma di 8046m. Qui su questi due obiettivi non è richiesta la capacità di esplorazione, ma entrano in gioco altri fattori, che Ferrari vuole conoscere per dominarli. Infatti nel 1991 lo vediamo sempre con i Ragni ad affrontare il problema del momento in Himalaya, la Ovest del Makalu di 8463m. E Casimiro anche su questo obiettivo dà la carica e trascina. Due giorni da solo al Campo più alto prima di desistere. Quota massima raggiunta 7400m. E non finisce qua, c’è da scommetterlo. 
Come non è arrivato al capolinea l’alpinismo lecchese, tanti sono i giovani che scalpitano, solo il tempo ci indicherà chi sarà degno di Ferrari, per rilevarne la testimonianza. 
Seneca disse: “Il tempo mette in chiaro la verità”. L’alpinismo per molti a Lecco è stato una ribalta, e sicuramente lo è stato per Casimiro Ferrari. Per interessamento di Ferrari sulla Ovest del Torre è stato pubblicato un libro, edito da Dall’Oglio, oggi introvabile negli scaffali delle librerie. Ferrari ha pure curato la produzione di ben cinque cortometraggi con argomenti: il Cerro Torre dei Ragni, il Nevado Huantsan, l’Alpamayo, il Fitz Roy e l’Ama Dablam. Il cortometraggio sul Fitz Roy si è aggiudicato il Premio “Città di Trento” e Ferrari ha ricevuto dal Presidente Nazionale del CAI Sen. Giovanni Spagnolli la “Genziana d’oro”. 
Ragno dal lontano 1959, è stato ammesso nell’Accademico nel 1965, ed entra nel G.H.M. nel 1968, nel novero prestigioso di quello che è inteso come l’accademia internazionale dell’alpinismo. Ferrari è stato insignito inoltre dal titolo di Cavaliere della Repubblica per meriti sportivi. Questi sono i suoi biglietti da visita. 
Ma noi a Lecco apprezziamo l’uomo per la sua dedizione al lavoro, come trafileria in proprio a Ballabio, e alla famiglia. Ora i due figli, Ugo e Laura, sono grandi e questo lo fa sentire sollevato, meno responsabilizzato. E proprio per questo appena può trascorre tutto il suo tempo libero a contatto con la natura nella sua casa di montagna a Morterone, alle falde del Resegone, paesino di pochi abitanti, che è andato spopolandosi nel dopoguerra e che d’inverno rimane isolato più volte per la strada inaccessibile per neve. 
Semplice, onesto, chiaro, come lui intende la vita. Cos’è la nostra vita senza un ideale? Se incontri Casimiro in montagna gli leggi la sua soddisfazione sul volto, gli occhi vispi luccicano, un sorriso appena più pronunciato. Ma nella sua vita mai ha creduto alle lusinghe di mettersi in vetrina, di voler apparire  quello che non era. Mai aveva nascosto le sue umili origini. Sa tenere nascosti i suoi tormenti. Non concede nulla all’improvvisazione. Lui sostiene che il nome di Lecco è una chiave sicura per entrare nel mondo dell’alpinismo. Certo che Ferrari ha contribuito a farlo crescere, esaltando con l’esempio le nuove leve. La sua figura è quella di un lavoratore “drogato” dall’onestà, che diventa voglia di fare tutto, e di fare tutto bene. Il suo orgoglio contagia tutti. La montagna è la sua casa. 
L’alpinismo visitato da amici, tra sorrisi ed affetti autentici, è come andare per sentiero di bosco: sempre più difficile da trovare. Non voglio ricorrere a delle esagerazioni celebrative che proprio Casimiro non sopporta. Perché Ferrari ha fatto tutto questo per Lecco, per i Ragni, per la montagna, per la sua vita? Dopo Casimiro incalzano tanti giovani di valore, chi di loro ne raccoglierà lo scettro, scrivendo per la storia di Lecco alpinistica altre pagine memorabili? Di certo c’è che ci sono le potenzialità. Staremo a vedere chi si affermerà in un modo altrettanto dirompente, prepotentemente e in modo insindacabile. 
Perché Casimiro ha fatto così tanto e così bene? Certamente non “perché era lì” la montagna, come spiegò enigmaticamente l’inglese George Herbet Leigh Mallory quando gli chiesero perché intendeva scalare la vetta più alta del mondo. Questo già nel 1924 quando la spedizione guidata da Edward Felix Norton muoveva all’attacco dell’Everest dal versante settentrionale himalayano del Tibet, giungendo fino agli 8572m. Poi si sono lette altre cose di Mallory: “C’è qualcosa nell’uomo che risponde alla sfida della montagna e le và incontro: è la lotta della vita verso l’alto, sempre verso l’alto… Da questa avventura si ricava pura gioia. Non si vive per mangiare e per fare soldi. Si mangia e si fanno soldi per godere la vita”. Mallory fu visto l’ultima volta nel 1924, in compagnia di Andrew Comyn Irvine, avvolto nelle nuvole, mentre imboccavano la via verso la vetta dell’Everest, nel pieno di ciò che gli dava il massimo della gioia nella vita. 
Definire “gioia” la dura esperienza che Casimiro ha meritato e gustato in montagna può anche apparire strano. Eppure la percezione è proprio di gioia, ce lo ha confidato, gioia di avercela fatta per l’alpinismo lecchese, gioia di essersi messo alla prova, gioia di sentirsi vivo e di vivere nel modo prediletto. 

Ricoverato da qualche settimana presso l’ospedale Manzoni di Lecco per una malattia incurabile, nella notte del 3 settembre del 2001, poco dopo le 2, a soli 61 anni, la vita di questo grande alpinista si è spenta per sempre, ma Casimiro Ferrari è ancora con noi. Il suo sapere di montagna, le sue indimenticabili imprese, che hanno dato lustro a tutto l’alpinismo lecchese e non solo, sono un patrimonio che rimane in tutti quelli che l’hanno conosciuto, ed è un valore prezioso ed immenso per tutti e forse inestimabile per le nuove generazioni. 

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