2018-11-05

Una goccia di vernice nera non cancella l’ANPI




Sandro Pertini, durante il discorso ufficiale della cerimonia allo stadio Rigamonti

Enrico Magni
L’insegna della sede dell’Associazione Nazionale Partigiani di Lecco per la prima volta dalla sua fondazione è stata imbrattata con della vernice nera in segno di disprezzo e rifiuto. Subito l’atto è stato rimosso dal parlottio civettuolo in città e dal vento impetuoso di questi giorni, eppure il 14 marzo 1976 alla città di Lecco è stata consegnata la medaglia d'argento al valor militare per la Lotta di Liberazione dal Presidente della Camera Sandro Pertini.

Lo sfregio è un invito a rileggere la testimonianza di chi ha vissuto sulla propria carne l’orribile conflitto di liberazione dal nazifascismo. E’ per questo che ripropongo parte della testimonianza di Giorgio Avagnina partigiano. Dalle sue parole emerge  il tormento di quel periodo storico, il senso, la sofferenza politica e sociale del prima e del dopo. La vernice con un po’ di acquaragia si toglie, però il significante dell’atto resta.
Avagnina era stato intervistato nel 1995, la sua testimonianza, insieme a altri partigiani e sindacalisti, è nel libro: La lunga storia di libertà: dalla resistenza all’impegno sindacale, della camera del Lavoro di Lecco, edizioni Logos,1996,Lecco.


 Presidente ANPI Provinciale Lecco Enrico Avagnina


Giorgio Avagnina- Sono stato spinto spesse volte a scrivere sulla Resistenza da parte di un mio amico dell'Istituto  Storico della Resistenza di Cuneo. Mi ha sempre detto: "Ma  tu perché  non scrivi, non racconti?  Noi lo stampiamo sul nostro notiziario  L'Avventura dei partigiani  monregalesi. Gli abitanti di Mondovì si chiamano monregalesi. Il Monregalese  è una zona del basso Piemonte. Ci chiamano i "terroni"del Piemonte perché siamo vicini alla Liguria.
Quali sono stati i fatti principali  della Resistenza  nel Monegalese? 
Avagnina  - Nel marzo del 1944 ci fu una grande battaglia in Val Casotto, vicino a Mondovì. C'erano degli ufficiali ex monarchici o monarchici badogliani che avevano raggruppato un po' di soldati della quarta armata che erano rimpatriati dalla Francia dopo il disastro  dell'8 settembre.  Si sono fermati e hanno continuato a fare i militari per combattere contro i tedeschi. Sono passati subito con gli alleati. Il 9 settembre hanno bruciato il paese e hanno ammazzato una cinquantina di persone. Noi abbiamo sempre raccontato poco.
E diventato partigiano  dopo l '8 settembre?
Avagnina  - Sì. Ho frequentato l'Istituto Tecnico a Mondovì. Il mio primo impegno, prima di andare a militare, è stato presso una fonderia di Mondovì. Ho fatto un anno giusto di guerra. Nel settembre del '42 sono stato chiamato alle armi e sono finito al Genio, alla Compagnia  Mobilitata Ferrovieri a Torino credendo di imboscarmi. Avrei voluto continuare gli studi a Torino, all'Istituto Pierino del Piano che era un Istituto Tecnico Industriale. A Mondovì c'era l'istituto ma per perfezionarmi sarei dovuto andare a Torino. Un mio amico mi disse: "Qui al Genio Ferrovieri  ti danno tutti i permessi che vuoi e puoi studiare. Vieni con me, ti faccio io le pratiche".
Era un sergente di carriera,  un certo De Matteis di Mondovì.  Se avessi seguito  la mia strada non avrei fatto un giorno di militare. Invece, per poter proseguire gli studi, andai a Torino al Genio ferrovieri. Tutti i  dipendenti della   EIAR, la Rai di una volta, si erano imboscati nella caserma di Torino che, in realtà, era più simile a un collegio. An­che durante i bombardamenti, nei sotterranei, si tenevano degli spettacoli.
Alla fine di ottobre del '42, Torino viene bombardata. Sono stati dei bombardamenti terribili che hanno causato la morte di migliaia di persone. La caserma è stata colpita e subito mi hanno mandato in zona dichiarata di guerra nel Meridione: Bari, Taranto, Catanzaro, la costa ionica.
In Sicilia sono rimasto per poco tempo perché sono sbarcati gli americani: gli alleati di giorno  distruggevano gli scambi delle ferrovie,  noi di notte li rifacevamo. 
Nell'agosto '43, ho preso una malattia e sono rimasto ricoverato  in di­ versi ospedali del meridione. L'8 settembre mi trovavo in un ospedale. Ero da 20 giorni in stato d'incoscienza, senza mangiare ... mi sono poi svegliato a Parma.
All'inizio mi hanno curato  come malarico. Avevo una febbre  che non cessava mai: al pomeriggio, talvolta, saliva fino a 40 gradi. Dopo 3 mesi si sono accorti che ero rimasto l'unico paziente del reparto dei malarici. Lì sono successi  anche degli episodi  che mai dimenticherò. A Parma, all'8 settembre, la popolazione  si è dimostrata eccezionale. Tutti portavano agli ammalati qualcosa:  vestiti in borghese, cibo ... Ma, man mano che  la febbre  scompariva, si veniva presi  e mandati  in Germania sui vagoni per il bestiame.
Chi veniva mandato  in Germania?
Avagnina  - All'8 settembre i tedeschi, sono riusciti a fermare interi reggimenti di soldati sbandati. Mandavano  in Germania gli sbandati e anche i soldati che si erano nascosti negli ospedali militari.
Quanto a me, non mi guardavano perché ormai ero "kaputt".  Il 28 settembre, invece, sono riuscito a scappare con l'aiuto della popola­zione e di una suora infermiera che non dimenticherò mai.
Ero un giovane di 20 anni, con un'educazione cattolica, legato all'Azione Cattolica e avevo  frequentato per  tutta l'adolescenza  l'oratorio  a Mondovì. Sono stati proprio i cattolici a farmi diventare comunista. Sono stati loro ad insegnarmi  a distinguere il bene dal male. I preti fino a un certo punto sono stati in grado di darmi delle risposte e poi più niente: ci sono rimasto molto male. La contestazione, che gli altri giovani hanno fatto nel '68, noi l'abbiamo  fatta nell'aprile '45.


Nel '45 era ancora nell'Azione Cattolica?
Avagnina  -No. Non lo ero già più, non mi sentivo  più cattolico, dato che, in que­ gli  anni, non  si riusciva a capire niente. Noi  vedevamo i tedeschi che avevano scritto  sulla cinghia:  "Dio è con noi".I tedeschi, gli inglesi  avevano i loro cappellani militari che benedivano la guerra, che era una cosa  schifosa.
Perché  i preti, che  sapevano  la verità, che sapevano dei campi di concentramento…non ci hanno mai detto niente? Mi stupisco che anche il Vaticano non abbia reagito. 
Secondo lei la Chiesa era consenziente?
Avagnina  - …o acconsentivano o temevano per loro stessi. Ci sono stati anche molti preti che hanno  dato un contributo alla Resistenza e in certi  casi hanno  an­che ricevuto la medaglia d'oro. A Lecco c'è stato don Ticozzi. 
Non sono mai riuscito a capire perché i preti dovessero benedire la guerra. Nel '41, sono andato  ad assistere alla partenza di alcuni miei  amici  che partivano per  la Russia. In quella  circostanza il prete  ha benedetto le bandiere. Solo più tardi noi giovani abbiamo compreso il significato di quell'atto. La colpa più grave del fascismo è stata quella di togliere a noi giovani la capacità di pensare con la nostra  testa. La mia generazione aveva le idee confuse. Dopo  la Liberazione, che è stato uno  dei giorni  più belli della mia vita, ho capito che bisognava  continuare a lottare. Così nel '50 mi sono iscritto deliberatamente al PCI.
Dal  '45 al '50 è rimasto incerto?
Avagnina  - Sì, ma avevo una voglia matta di continuare a lottare. Per 10 anni c'è stata un'involuzione politica. I fascisti sono stati amnistiati e hanno ri­preso i  loro posti. Noi, dopo aver fatto gli eroi, siamo stati rimandati  a casa. Sono stato disoccupato  per un anno.Molti miei compagni hanno preso strade sbagliate. C'era proprio da di­sperarsi in quella  situazione. Fino a quando ho tenuto un mitra in mano sono stato considerato un eroe: tutti mi temevano, quando siamo tornati a casa a lavorare finì tutto. Nel dopo guerra ci sono state grosse difficoltà economiche, non solo per i disoccupati.  La fame è brutta,  ci si chiedeva:  "Abbiamo combattuto per che cosa?  Per chi?Il potere  era ancora in mano  agli stessi:  a quelli che sono rimasti nascosti o agli ex­fascisti o ai figli dei padroni di prima".
È stata una grande delusione.  Per  10 anni siamo stati perseguitati, non c'era un giornale che non scrivesse contro di noi come partigiani. Questa situazione è durata finché è arrivato il centro sinistra con Nenni. Da quel momento la situazione è cambiata e molti hanno cominciato  a rivedere la Resistenza. Perché poi, diciamo la verità, a fare i partigiani combattenti eravamo  in pochissimi.
La Resistenza è stata fatta anche da chi faceva la staffetta, da chi è morto all'estero combattendo  contro  i tedeschi. A Cefalonia, Cipro  e Corfù hanno ammazzato migliaia di soldati che non aderivano alla Repubblica di Salò. Un mio caro amico e io siamo andati nelle formazioni  partigiane.  Non sono diventato  subito partigiano  perché ero ancora malato. Appena  mi sono rimesso  in forma sono andato  in montagna perché,  non avendo risposto  ai bandi di chiamata alle armi, figuravo come disertore. Le classi dal '21 fino al '25 erano sottoposte al richiamo alle armi. Allo­ra tutti i fascisti cercavano i renitenti alla leva. I primi a cercarmi  sono stati i carabinieri  che andavano casa per casa, dopo aver preso in comu­ne gli indirizzi,  che erano in ordine alfabetico. Ho continuato  a fuggire finché  il mio amico Avico e io ci siamo detti: "Lassù  c'è una banda di ribelli".  Non si parlava di partigiani.  Si chiamavano ribelli.
Dall'altra parte non volevamo proprio andare, avevamo già provato sul­ la nostra pelle la guerra e non volevamo morire per il Re. Ci nauseavano tutte le divise, le medaglie ...
Quando vi siete uniti alle formazioni partigiane?
 Avagnina  - Nel gennaio '44 siamo andati al comando dei ribelli della Val Casotto per arruolarci, a Pamparato, che è il paese della Val Casotto dove c'era la sede  e il centro  di reclutamento.  A Casotto c'era un castello  del re, dove c'erano i comandanti e i generali. Il CLN, quando si costituì, sosti­tuì uno di questi generali, perché era favorevole a una linea attendista. A Pamparato  abbiamo trovato fazzoletti rossi, gente che cantava "Bandiera rossa.Senza saperne nulla, mi sono ritrovato in Liguria nella famosa e leggendaria divisione "Mingo"comandata dai comunisti  garibaldini. Ero nel­la nona brigata  Garibaldi. Ho incominciato a fare il partigiano  coi monarchici, poi sono stato cat­turato e imprigionato ... I partigiani monarchici alla fine della guerra era­ no detti partigiani autonomi, ma in realtà erano monarchici,  specialmente i comandanti.
Voglio dire una cosa molto importante:  non tutti i partigiani garibaldini erano comunisti. D'altra parte, non tutti i partigiani autonomi, detti "azzurri', erano  monarchici; tra questi c'era anche Folco Lulli, un attore cinematografico repubblicano, venuto in Val Casotto per formare la sua banda di repubblicani. Mi sono ritrovato  nella divisione Mingo. I primi giorni avevo paura di restare, a causa della disciplina ferrea: se ti addormentavi  durante il tur­no di guardia venivi fucilato.
Il mio amico e io andavamo insieme a fare la guardia per non addormen­tarci. Nel primo periodo avevamo quasi più paura dei compagni che dei nemici. Poi abbiamo conosciuto gente meravigliosa. Nella brigata c'erano anche disertori tedeschi, russi e iugoslavi usciti dalla prigione ali' 8 set­ tembre.



Di quante formazioni partigiane ha fatto parte?
Avagnina  - Ho fatto parte di 3 formazioni partigiane:  dapprima  degli autonomi, poi dei garibaldini e infine di "Giustizia e Libertà". A quell'epoca il nostro  maestro era  Ferruccio  Parri, grand'uomo. Noi  non avevamo un'ideologia e non capivamo,  per esempio,  come  potesse esserci  una squadra di garibaldini  che avesse una medaglia  su cui erano riprodotti da una parte falce e martello e dall'altra la Madonna.  Questi poi hanno costituito il  gruppo  dei Cristiano Socialiche è durato ancora qualche anno dopo la guerra come un vero e proprio partito di comunisti cattolici. Loro sostenevano  di essere comunisti­cattolici. Io mi chiedevo: "Come si fa a essere comunisti  e cattolici  nello stesso tempo ?". Discussioni  interminabili !
Sono maturato pian piano. Non ho avuto  la fortuna di avere un padre militante politico. Mio padre non la sapeva tanto lunga in fatto di politica, pur avendo subito 3 anni di disoccupazione per non essersi iscritto al partito.
A quali battaglie ha partecipato  ?
Avagnina  - Il 27 di febbraio sono andato al più vicino comando partigiano, la for­ mazione autonoma del comandante Mauri. In trincea, in fondo eravamo orgogliosi di aver aspettato i nemici: loro erano 20.000, armati di aerei, cannoni e carri armati; noi eravamo un migliaio, ma armati bene saremo stati soltanto in 500 o 600. Cosa avremmo potuto fare?
Abbiamo combattuto  4­5 giorni o una settimana e ci siamo "sbandati".
Avagnina  - Questo  è stato il primo  importante  episodio. Noi ce ne vantavamo  un po':  "Li abbiamo aspettati lì, testa a testa! Venite avanti!".
Con altri amici e compagni ho fatto parte della quarta divisione Alpi.  Ho partecipato  alla battaglia della Val Casotto. Catturato, sono stato portato prima a Ceva quindi condannato alla fucilazione,  ma all'ultimo momen­to questa  condanna è stata commutata  in prigionia.  Sette miei compagni sono stati fucilati subito. Tra questi c'erano il professor Enrico Valvassurae il dottor Natale Re, tutti e due medaglia d'oro: anch'io sarei medaglia d'oro se mi avessero fucilato.
Sono stato trasferito nel carcere di Cairo Montenotte e infine nel forte di Gavi Ligure. Con altri partigiani e compagni di prigionia ho organizzato la fuga dal forte di Gavi, liberando alcuni ufficiali superiori internati in attesa di processo. Erano addetti militari a Berlino e, siccome avevano garantito di sostenere  Graziani, erano stati rimandati in Italia.
Arrivati qui, però, hanno detto: "Aspettiamo ancora un momento prima di decidere". Allora sono stati messi in galera insieme a noi. Nel forte di Gavi loro avevano l'alloggio separato da noi. Dopo 2 mesi di prigionia, noi avevamo  già la possibilità  di scappare. Abbiamo  pensato che anche loro avrebbero  combattuto contro  i tedeschi, anche se erano stati generali del passato esercito fascista. In fondo era tutta gente che aveva appoggiato  il fascismo per avere delle  meda­ glie da mettere al petto, ma poi, quando c'è stato lo sfacelo ...
Hanno pensato bene di passare dall'altra parte?
Avagnina  - In realtà erano opportunisti,  tant'è  vero che Ii abbiamo  portati fuori dal forte quasi in braccio. Noi prigionieri abbiamo dovuto aderire all'in­quadramento  e alla disciplina di questa compagnia. Il mio amico di Mondovì  e io eravamo  i più decisi: "Ma  siete matti! Abbiamo la possibilità di scappare facilmente, uccidendo le sentinelle... Se venite bene. Altrimenti  scappiamo  da soli". Uno dei generali non ha voluto aspettare  gli altri e un mattino con una corda saltò dal muraglione  del forte: è diventato  il comandante  territo­riale dei partigiani  della zona. Questo  è successo prima e ci ha rovinato un po' il piano che avevamo concordato  con i generali. Dopo  un periodo  di permanenza nella nona  Garibaldi della  divisione "Mingo",che operava nell'Alessandrino, sono stato tra i fondatori della brigata "Martiri della Benedicta", che alla Liberazione  apparteneva alla divisione GL. Io mi chiamavo Edo, in memoria del mio amico  Edoardo. Noi partigiani abbiamo dato un contributo alla vittoria  e quindi, a buon diritto, avremmo dovuto partecipare alle trattative di pace.  Gli  stessi alleati hanno  ammesso il vantaggio, dal punto  di vista bellico, derivante dal blocco  di 8 divisioni nemiche.
Dopo la guerra ho fatto parte, come incaricato tecnico della cooperativa di partigiani ed ex internati di Mondovì.
In seguito ha continuato a lavorare in quella cooperativa?
Avagnina  - No. Allo scioglimento della  cooperativa, mi sono  trasferito a Torino, dove ho lavorato in un'industria di lampade elettriche. Era un 'esperien­ za nuova. Incominciavano ad assumere operai, soprattutto donne. Si fab­bricavano lampadine per luminarie e per automobili. In seguito ho dovuto lasciare  la città a causa  della discriminazione  nei confronti degli  iscritti ai partiti di sinistra  negli  anni,' 50­ '60.  Ho avuto più difficoltà a fare il comunista dopo la Liberazione. Mi  sono iscritto al PCI soltanto nel '50. 
Come mai solo nel '50?
Avagnina  -Prima  avevo una tale confusione in testa da non riuscire a capire niente. Dopo  essere stato partigiano, dopo  l'esperienza della Resistenza, mi sono  orientato verso  la parte che mi ha consentito di lottare ancora per quegli  ideali. Ho quasi  assimilato gli ideali  della Resistenza con quelli del PCI che, dopo la guerra, ha lottato  per realizzare quello  che avevamo sognato. Abbiamo lottato per la libertà. Il PCI aveva fatto la Resistenza già nel periodo precedente alla guerra:  dal '22 in avanti.  Questo  va ricordato! Durante il ventennio fascista, il tribunale speciale fascista emanò  com­plessivamente 5.000  condanne:  4.500 riguardavano comunisti; 500  ri­ guardavano gli altri: Partito  d'Azione, Partito Liberale, cattolici. I comunisti, hanno avuto il peso preponderante nell'opposizione al regi­me. Per me è motivo di orgoglio questo  fatto. Sulle lapidi vi sono scritti i nomi  di persone appartenenti a tutti  i ceti sociali, ma  prevalgono  gli operai e  gli studenti. Se non  avessimo avuto  l'aiuto della popolazione non avremmo potuto fare la Resistenza in nessun  luogo, perché davamo anche fastidio a cau­sa delle rappresaglie dei tedeschi. Mi sono impegnato in tutte  le battaglie democratiche dalla Liberazione in poi.
Ho fatto parte della XII sezione di Borgo Vanchiglia. Sono stato eletto nella Commissione  Revisione  dei Conti della  federazione del PCI di Torino. Nel '58-'60 quando a capo della FIAT venne nominato Valletta, egli ordinò a tutte le industrie che lavoravano per la Fiat di eliminare e di allontanare  tutti gli attivisti  sindacali:  comunisti, socialisti,  tutti quelli che non la pensavano come il padrone.
L'azienda dove lei lavorava dipendeva  dalla FIAT?
Avagnina  - Lavorava anche per la FIAT. Da me è arrivato due volte un esponente dell'ufficio politico della polizia per dirmi: "Volevo soltanto avvertirvi che qui avete un attivista comunista pericoloso". Era il mio principale  a mandarlo. Era il sistema per intimidire,  per spaventare.
La seconda volta che è arrivato,  gli ho detto: "Giorgio Avagnina sono io!". Se non avessi chiarito, la polizia  avrebbe creduto che io fossi un operaio qualunque. Le mie idee politiche erano in contraddizione  con il mio lavoro; per questo ho trovato ancora più difficile essere comunista.
In che senso le sue idee erano in contraddizione col suo lavoro?
Avagnina- Nel senso che io dovevo far produrre.  La segretaria del mio principale, che con me aveva una certa confidenza, mi aveva detto un giorno: "Guardi che lui ha scommesso con gli amici al circolo Artisti di Torino di farle cambiare idea da così a così".
Lei aveva una posizione di dirigente nell'azienda?
Avagnina- Ero capofabbrica. Il mio principale sosteneva che con la mia ideologia non avrei potuto far lavorare e produrre gli operai, proprio perché la pensavo come loro. Gli operai, invece, mi volevano un bene da morire. Sono stato costretto ad andarmene perché il mio datore  di lavoro ha cercato dì sostituirmi con cinque persone, una dopo l'altra. Io insegnavo loro il mio lavoro, credevo che il principale me li affiancasse per darmi un aiuto ... allora ho dato le dimissioni e me ne sono venuto a Lecco. Devo ringraziare anche mia moglie, che mi ha sopportato per tanti anni.
In Piemonte lei aveva tutti i parenti.  È brutto dover scappare.  D'altra parte, tanti miei amici sono rimasti disoccupati. Il mio principale era convinto che non avrei trovato nessun altro lavoro perché pensava che non mi sarei allontanato da Torino. Noi piemontesi, infatti, siamo ancora attaccati alla nostra terra. Io invece mi sono mosso, come uno zingaro, in cerca di lavoro. Mi è piaciuta subito questa piccola fabbrica lecchese che era in via di fallimento quando sono arrivato.
Sono stato a Lecco per trent’anni sempre come provvisorio.
Ha svolto anche attività politica?
Avagnina- Sono stato consigliere  provinciale dal 1975 al 1980. Dal '65 ho fatto parte del comitato provinciale ANPI a Lecco. Dal '78 sono stato membro del direttivo dello SPI (Sindacato Pensionati CGIL). Sono stato presidente della cooperativa di Maggianico.  Ero sempre impegnato. Mia moglie mi diceva: "Ma portati il letto là!".
Con Vanalli ho lavorato molto per la cooperativa. Vanalli è un brav'uomo. Sono stato prima segretario e poi presidente della cooperativa. Pensa che io ho firmato due cambiali. Sai che cosa significavano nel 1970 due cambiali, una di nove milioni e l'altra di sei, per acquistare lo stabile che adesso appartiene alla cooperativa?  Nel '75 abbiamo finito di pagare tutti i debiti.



Che cosa si ricorda delle elezioni del 18 aprile 1948?
Avagnina- Mi sono iscritto al PCI dopo la sconfitta elettorale. Nel '48 erano tornati i vecchi comandanti monarchici e mi hanno detto: "Giorgio, se i "rossi" vincono le elezioni, devi venire con noi in montagna". Erano partigiani di destra, partigiani monarchici.  Era tutto organizzato per salire in montagna.  Avevano tenuto delle armi.  Erano pronti alla guerra.
Nella Resistenza c'è stata anche la violenza.  Purtroppo noi partigiani non eravamo tutti "angeli" e abbiamo commesso molti errori. Alcuni hanno approfittato della Resistenza per rubare e così noi, oltre a lottare contro i tedeschi, dovevamo anche arrestare il ladro e fucilarlo ...
Ho visto ammazzare un ragazzo che aveva rubato un paio di scarpe a un contadino.  Il contadino ha scoperto il ladro e l'ha denunciato. Vigeva una disciplina di ferro. Il ragazzo è stato processato e fucilato. Ma non si può neanche parlare di processo!
Questo ragazzo chi era ?
Avagnina- Era un partigiano.  Per noi era impensabile rubare ... Tra i partigiani garibaldini e della GL, da un lato, e gli autonomi, dall'altro, esisteva una forte rivalità. Già allora i monarchici erano anticomunisti.  Se vedevano un fazzoletto rosso lo strappavano!  Più tardi il CLN ha unificato il movimento partigiano. Io ero un incosciente, un ignorante come tutti i ragazzi di allora, cui nessuno aveva insegnato niente. Il male maggiore del fascismo verso noi giovani è stato quello di toglierci la possibilità di pensare con la nostra testa. A militare valeva il principio: "Credere, obbedire, combattere". A scuola il professore dettava  legge e guai a contraddirlo! Non avevamo neppure libri e quindi vivevamo nella più completa ignoranza. Ho visto arrestare un uomo soltanto perché suo figlio, un mio amico, aveva avuto in prestito "Il tallone di ferro" di Jack London. Era un libro proibito perché vi erano esposti i principi del socialismo. In genere un ragazzo, se non apparteneva a una famiglia di vecchi socialisti o comunisti, non capiva niente della situazione politica.
Mi ricordo che un mio compagno di scuola, poverino, mentre la professoressa parlava dei sovversivi, s'è alzato in piedi e ha detto: "Mio papà è un sovversivo!".I fascisti sono andati a prenderlo e noi a scuola non l'abbiamo più visto. Il papà è andato in galera. Noi dicevamo: "Chissà cos'ha fatto!". Noi credevamo che fosse proprio un sovversivo, un bolscevico. Que1Ie per noi erano parole terribili, perché non sapevamo che bolscevismo vuol dire maggioranza, che i soviet sono i consigli: qui c'è il consiglio regionale, là c'è il soviet. Erano tutte parole che avevano acquistato un valore negativo, da inferno, da condanna ...
Pensa che noi deridevamo un nostro professore di francese perché era un po' claudicante e aveva, inoltre, una protuberanza sulla guancia, come se masticasse sempre la cicca; gli facevamo anche qualche scherzo. Non sapevamo che era stato confinato in quella scuola industriale, semplicemente perché era antifascista.  È morto poi a Mauthausen.  E noi invece lo scherzavamo, sai come sono fatti i bambini e i ragazzi ... Finita la guerra andavamo ancora all'oratorio a discutere e ad accusare il nostro parroco, don Roatta, che era parroco di Mondovì Ivreo.  Don Roatta, per non perderci, ha dovuto ascoltare la nostra esperienza; noi l'accusavamo perché lui, pur sapendo, non ci aveva detto nulla.
Questo dopo la Liberazione?
Avagnina  - Sì. Siamo diventati tutti atei. Sono rimasto amico del parroco, ma non sono più andato in chiesa. Per la verità, sono andato ancora una volta su suggerimento di mia madre, che mi ha detto: "Vai a ringraziare perché ti sei salvato dalla guerra".  Entrando in chiesa, però, non ho più sentito quello che sentivo prima. Poi siamo stati scomunicati. Don Roatta era stato poi allontanato da Mondovì e promosso vescovo di Norcia perché aveva iniziato a predicare contro i potenti ... per non perderci ha iniziato a parlare contro i potenti del paese.  I potenti si scappellavano e facevano grosse offerte ai preti e poi sfruttavano gli operai. La lotta politica era radicalizzata, la passione ci faceva dire cose anche eccessive. Dopo che quel povero diavolo è stato mandato a Norcia, in mezzo ai lupi, io non ho più avuto nessun contatto con il clero. Si facevano  tante discussioni con quel povero prete. A quell'epoca chi votava comunista era scomunicato.
A casa mia è stata una tragedia perché mia sorella era religiosissima ed era anche dirigente dell'Azione Cattolica. Quando mi sono iscritto nelle liste elettorali del PCI, lei ha dato le dimissioni dall'Azione Cattolica. Lei era preside di una scuola media ... Io e mia sorella ci vogliamo ancora bene, ma in casa ci sono state tali lotte in quel periodo! Lei si è domandata: "Che razza di apostolato faccio, se non sono riuscita neppure a convertire mio fratello?".  Così si è ritirata. Ho sempre avuto qualche rimorso per questo fatto.

Giorgio Avagnina è nato a Mondovi nel  1923. E’ stato partigiano nel Monregalese. Nel dopoguerra è divenuto capofabbrica in un'azienda produttrice di lampadine, prima aTorino poi a Lecco. Nel '50 si è iscritto al PCI, dal 1965 fino alla morte è stato nel Comitato Provinciale ANPI di Lecco, dal 1975 al 1980 è stato Consigliere Provinciale e dal 1978 è stato nel direttivo dello SPI.

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