2019-11-04

Iniziative mese di novembre della Libreria Parole nel Tempo di Lecco

[1] Lunedì 4 novembre, ore 18.30, incontro in libreria del gruppo di lettura: analisi del romanzo di Eleonora MarangoniLux (Vicenza, Neri Pozza, 2018). Scelta del prossimo romanzo.


Si allega la recensione a Lux scritta da Luca Alvino, in “Minima&moralia”
Ci sono libri che è opportuno rileggere due volte: la prima volta per percepirne il sapore, e la seconda per metterne a fuoco la storia. Sono i romanzi che compiono un investimento speciale nelle atmosfere avvolgenti, nello stile ricercato, in una lingua sorvegliata ed esatta, e nei quali gli eventi narrati sembrano passare in secondo piano, come oscurati dal nitore e dalla forza dell’espressione. Affrontando queste opere, a una prima lettura si corre il rischio di non riuscire a cogliere perfettamente le relazioni tra gli avvenimenti descritti, perché è facile lasciarsi distrarre dalle suggestioni evocate dal racconto. Ed è solo leggendole nuovamente che i nessi causali e temporali acquisiscono una rigidità più definita e articolata, e si riesce a percepire la storia con il necessario livello di esattezza.
È il caso di Lux (Neri Pozza), romanzo d’esordio di Eleonora Marangoni, una scrittrice che, per quanto ancora giovane,ha già sviluppato una visione del mondo originale e matura, ed è dotata di un’assennatezza scintillante e piena di grazia. Marangoni, che negli anni passati si è fatta conoscere per i suoi studi su Marcel Proust, confeziona un libro capace di cogliere l’energia segreta delle cose, la linfa nascosta che le innerva e da cui la storia a poco a poco si dipana.
Thomas Edwards, giovane rampollo di una famiglia anglo-italiana, riceve un’eredità particolare: un albergo d’altri tempi in un’isola nel Sud Italia, una piantagione di baobab nani e una sorgente d’acqua minerale dalle straordinarie proprietà curative. L’uomo si reca sul posto insieme alla sua fidanzata, Ottie Davis, e al figlio di lei per vendere la proprietà a un compratore misterioso. Al centro dell’isola si trova l’hotel Zelda, una pensione che sicuramente ha visto giorni migliori, ma che mantiene tuttavia un fascino indecifrabile.
Nell’hotel confluisce una serie di personaggi pittoreschi, che tutti insieme daranno vita alla trama del romanzo: Gero Rutirò, il gestore dell’albergo, una di quelle creature che trovano la propria dimensione a metà strada tra l’egoismo e l’indolenza; Guglielmo Gandini, scrittore in pensione un po’ snob, che ogni anno parte da Milano per trascorrere due settimane all’hotel, sempre e rigorosamente fuori stagione; Olivia Lubic, una biologa triestina al settimo mese di gravidanza, sempre guardinga e dall’aspetto indifeso, che suscita in Thomas un irresistibile quanto fatale senso di protezione; e Agave, una prostituta un po’ avanti negli anni, originaria dell’isola, caratterizzata da un’allegria contagiosa e una pinguedine a suo modo sensuale.
Tra questi personaggi prende vita una storia in cui le interazioni tra i protagonisti non sembrano mai esaurire la forza delle pulsioni che le hanno generate; l’espressione dei sentimenti da parte dei personaggi rimane frenata, attutita, come se i loro pensieri non riuscissero a oltrepassare il limite fisico degli individui e rimanessero – almeno parzialmente – inespressi. In questo processo quasi osmotico che regola e limitala comunicazione, l’interno e l’esterno sono esposti a una continua e reciproca contaminazione. L’esterno si configura come pura interiorità, e le relazioni apparentemente effimere tra le cose disegnano un percorso che è primariamente un itinerario spirituale, che mira a tracciare i legami dell’universo con la parte più profonda del sé. Il mondo interiore vive all’esterno: negli oggetti, nel clima, nei dettagli; la privatezza, la riflessione profonda, il sentire più intimo e radicato rimangono impigliati nelle cose e le trasfigurano, le trasformano da accidenti in sostanza, da elementi superficiali in essenza del mondo:


[2] Martedì 12 novembre, ore 18.00, il Maestro Michele Campanella, pianista di fama internazionale (vedi CV allegato)  presenterà in libreria il suo volume Suono. Pensieri e divagazioni di un musicista fuori dal coro (Roma, Castelvecchi, 2019). Dialogherà con lui il musicologo Prof. Angelo Rusconi (Res Musica, Lecco)

Michele Campanella
Suono
Introduzione di Daniele Spini
«Una serie di concerti suonati con le parole» attorno agli argomenti fondamentali e ai giganti della storia della musica, da Bach a Beethoven, Rossini e Saint-Saëns, e poi Clementi e Chopin, Verdi e Puccini, Schumann, Brahms e Liszt. Suono raccoglie vent’anni di riflessioni e scritti realizzati da uno dei massimi musicisti italiani, alla tastiera del pianoforte e allo scrittoio, come note di sala o in occasione di conferenze. Un’opera composita in cui la ricerca musicale viene illustrata attraverso la vita da artista e interprete di Michele Campanella; e in cui, viceversa, la componente autobiografica diventa il pretesto per un appassionato racconto della Musica, che non si limita al repertorio pianistico ma arriva a toccare filosofia, religione, pittura.
Michele Campanella
Napoletano di famiglia, spirito ed educazione, è un musicista cui la tastiera del pianoforte non è parsa sufficiente. Dirige l’orchestra, insegna, scrive. Nel 2018 è stato insignito della laurea honoris causa in Musicologia dall’Università di Napoli Federico II. Ha pubblicato Il mio Liszt (2011) e, con Castelvecchi, Quisquilie e pinzillacchere. Storia di un musicista napoletano raccontata a un amico (2017).


[3] Martedì 19 novembre, ore 21.00, il Dott. Alberto Benini presenterà in libreria il suo volume Casimiro Ferrari. L’ultimo re della Patagonia (Lecco, Alpine Studio, 2019). Dialogherà con lui l’alpinista Giuliano Maresi.

Si riproduce la recensione di Daniele Chiappa alla prima edizione del volume: 
l libro sull'uomo e sull'alpinista Casimiro 'Miro' Ferrari
RECENSIONE a cura di Daniele Chiappa
Al libro Casimiro Ferrari, l’ultimo re della Patagonia, ho girato attorno parecchio. L’ho annusato, l’ho sfogliato, mi è ballato diversi giorni tra le mani… e non lo nego, avevo paura di trovarci qualche gradino rotto che avrebbe potuto diminuire la mia considerazione nei confronti dell’autore. La mia non era sfiducia, ma attenta circospezione, diffidenza verso un testo che avrebbe potuto scoprire qualche nervo importante (il Miro non era personaggio facile, ne’ da vivere e ne’, tanto meno, da scrivere), ma poi ho rotto gli indugi ed effettivamente, dopo aver letto attentamente ogni periodo di vita del Miro, mi sono reso conto dell’importanza che il testo di questo libro era effettivamente una gran bella storia.

Già dalle frasi poste in testa ad ogni capitolo, ci sarebbe di che dire… ma ho scoperto molte altre citazioni, di Miro, di Bonatti e di molti altri coprotagonisti di questo importante film dell’alpinismo lecchese, tanto che, si potrebbe seriamente sviluppare un convegno sulla filosofia alpinistica. Casimiro è stato indubbiamente un personaggio strano; ho provato ad immaginarmelo un mutante. Un mutante che, ahimé, non ha lasciato alcun gene al mondo e che del suo DNA, a noi, nulla è rimasto. Non era facile scrivere di lui, così pieno di spigoli, di angoli acuti, di azioni controcorrente, ma scrivere di Miro poteva essere anche una sfida… un po’ come la sua vita. Accidenti! Sto pensando che Benini ha avuto una grande fortuna. Quando Miro conquistò l’Aguja Mermoz, in concomitanza del ventesimo anniversario della salita al versante ovest del Cerro Torre, ebbi a dire di lui che non era un uomo, ma un’appendice della montagna stessa, un pezzo di sasso insomma. Ero convinto che Miro era un po’ come un panda: via lui non ce ne sarebbe stato un altro uguale.

Miro si trovava certamente meglio nell’inferno patagonico che a casa sua a Ballabio. Al tempo della Mermoz aveva 53 anni e mi sembrava strano che Miro riuscisse, ancora, con il male che accerchiava i suoi spazi, non solo a pensare ad un’ascensione così importante, ma di esserne il coautore e il capocordata sulle parti difficili. Con Miro ho passato l’avventura che mai nella mia vita avrei potuto sognato di vivere, con lui ho passato tanti bivacchi in tenda, ho salito molti tiri di corda sulla ovest del Torre, ho tenuto con lui la paleria delle tende quando il vento sembrava strapparcele da sotto i piedi, ho ascoltato gli umori che emanava prima delle sue sfuriate… e alla fine mi diceva... ”Ciapin... sem pusé fort nun del vent”… (Ciapin, siamo più forti noi del vento). Ho conosciuto il Miro capo spedizione, che a soli 33 anni si preoccupava della logistica, dell’avanzamento dei carici (come li chiamava lui) verso i campi alti, dei viveri, della salute dei suoi uomini, dell’armonia che era indispensabile in un gruppo così numeroso. Un leader ed una leadership che oggi ce la sogniamo! Ho conosciuto il Miro, dagli sfoghi violenti ed improvvisi, propri di un animale selvatico, abituato a cavarsela sempre in qualsiasi maniera ed a pretendere che, anche chi gli stava vicino, fosse e reagisse come lui.

Qualche giorno dopo l’intervento allo stomaco di Miro, per un ulcera mal curata, parlai con il Dott. Liati, nostro medico al Cerro Torre. Mi disse con la sua inflessione gallaratese... ”Ciapin, per el Miru ghe pu nient de fo”… (Ciapin, per il Miro non c’è più nulla da fare!). Gli avevano aperto e subito richiuso la pancia; non c’erano i minimi spazi di successo per una terapia risolutiva… il male del secolo lo avrebbe portato via di li a qualche mese. Evidentemente al Miro questi calcoli umani poco interessavano. Aveva ancora molte cose da fare in Patagonia, soprattutto andarci a vivere e quindi risolvere qualche problemino patagonico ancora insoluto. Il cancro avrebbe potuto aspettare, oncologi, chirurghi, scienziati e… a dirla tutta, anche qualche psicanalista, che ha dovuto cambiare qualche riga dei propri protocolli scientifici. Con Miro saltavano tutti i parametri… sempre! Su qualsiasi cosa. Resistette al male ancora per altri 10 anni. La Patagonia era la sua terra primordiale... era nato a Rancio sopra Lecco; era vissuto a Ballabio, ma da sempre, probabilmente sin dalla creazione dell’universo, ha avuto un collegamento diretto con l’appendice inferiore dell’Argentina. Qualche tempo dopo, camminavo sopra Ballabio in compagnia della mia ragazza. Stavo vivendo con lei i momenti di crescita comuni ad una coppia e le raccontavo di quali e quanti impulsi stava ricevendo l’alpinismo lecchese, dal mondo della montagna. I Ragni erano certamente l’avanguardia mondiale delle grandi imprese alpinistiche, ma non era facile fare alpinismo a quei livelli… allenamenti forsennati, grandi scalate, bivacchi impensabili ed al lunedì, senza pagare il quarto d’ora, di nuovo in fabbrica. Miro lo sapeva che i miracoli erano difficili da fare… ma lo sapeva forse solo lui! solo lui aveva pensato come fare “strategicamente” per avvicinarsi al mondo continuo delle scalate di grande rilievo. Io avevo 24 anni ed ero alpinisticamente, come si dice dalle parti di Lecco, un pistolino. Se il Cerro Torre mi aveva, da una parte forgiato, dall’altra mia aveva segnato profondamente… da due anni non avevo messo più un paio di ramponi ai piedi… avevo una sorta di repulsione al ghiaccio. I ricordi delle sofferenze, della fame, delle sfuriate di Miro mi avevano fatto capire che forse non era ancora tempo per me.

Nevischiava e l’aria era molto fredda… Anche se non eravamo in Patagonia il tempo era da lupi… un tempo da Miro insomma. Salivo lentamente pensieroso in mezzo alle betulle di Bongio quando mi sento chiamare… “Ciapin… se fet in gir in mez ai praa”… (Ciapin, cosa fai in giro in mezzo ai prati). Mi volto e vedo Miro comparire da dietro una betulla… “Ciao Miro”, gli rispondo, …“Ciapin, scultem”… (Ciapin ascoltami) e togliendo dalla tasca della giacca a vento un pacchettino piccolissimo di carta igienica, la srotola e mi fa vedere una bagola di lepre (una cacchetta di lepre). Mi chiede cosa ne penso… e quanto peserà la lepre in base alla dimensione (diametro e lunghezza) della cacca stessa. “Ma… - gli dico io, (la sparo grossa… in effetti non so nemmeno cosa stia dicendo)- secondo me sarà otto o nove etti…” “No, Ciapin, forsi l’è un chilu e du”… (No Ciapin, forse è un chilo e due).

Casimiro la prende molto larga: sa che non sono un cacciatore e allo stesso modo mi sta facendo una domanda alla quale non so quanti potrebbero rispondere e mi fa capire, senza tanto girarci attorno che la caccia non è il mio pane. Ma la strategia era un’altra… Non si perde in chiacchiere e mi dice subito… ”L’invernu che ve, se fet”? (Cosa fai l’inverno venturo?) …”Narò a scià”… (andrò a sciare) gli rispondo: …”dai Ciapin, ve insem de me, che vem al Fitz Roy a fa el pilaster”… (Dai Ciapin, vieni con me che andiamo a fare il pilastro del Fitz Roy)… Come se il pilastro est del Fitz Roy fosse una cosa da fare velocemente e poi via! Guardo Lucia, la mia ragazza: sono allibito da una parte, e lusingato dall’altra… non so cosa rispondere, poi mi viene in mente la fame, l’interno della tenda, il sacco a pelo bagnato, il vento e gli rispondo… “No Miru, preferisi imparà a fa el casciadur! Ghe meti de menu” (No Miro, preferisco imparare a cacciare, ci metto meno). Sarò forse l’annuncio di ciò che verrà in futuro? Poca volontà ad accettare sfide? Piacere di godersi una vita senza intoppi? … ci ho pensato molto, ma sono certo non fosse così. Miro era semplicemente più avanti… per intuizioni e volontà. Solo quello: e basta! Lo dimostra al Fitz che si ridusse a salire in cordata da due e che è sintomatico di una caparbietà, di una energia e di una filosofia patagonica, capace solo ad un mutante.

Mi sono riletto, per piacere personale, il libro ed ho capito che anche Alberto Benini ha dovuto sfoderare tutte le sue capacità scrittorie per far stare insieme tutte le peculiarità di Casimiro. Peculiarità contrastanti fra loro, difficili anche da incollare. Una capacità che mi ha tenuto appiccicato alle pagine che hanno saputo esprimere energie positive sin da quando Miro era un cacciatore di passeri solitari, cultore di nuovi pensieri, bracconiere di sensazioni, programmatore del tirocinio di nuovi alpinisti fino a diventare stratega di grandi imprese, ma soprattutto gestore diretto della sua vita tribolata e senza pace.

Alberto è stato capace di scrivere come parlava Miro… anche con spigolature fastidiose, ma con un lessico chiaro… una parlata che si sente bene anche nel vento, proprio come usava fare lui… Non c’era bufera che attenuasse la sua voce. Ora è chiaro: Alberto Benini ha saputo dipingere il vero Casimiro… una forza della natura!


[4] Lunedì 25 novembre, ore 18.30, incontro del gruppo di lettura

[5] Martedì 26 novembre, ore 17.30, Marco Lupo presenterà il suo romanzo Hamburg. La sabbia del tempo scomparso (Milano, Saggiatore, 2018), Premio Campiello Opera Prima. Dialogherà con lui il Prof. Maurizio Bertoli (Liceo Classico e Linguistico, “A.Manzoni”, Lecco).
Si tratta di uno dei romanzi più originali, nella costruzione e nello stile, pubblicati in Italia negli ultimi anni. Se storica è la materia, il modo di declinarla è senz’altro assai poco convenzionale. Questi ed altri motivi saranno al centro di una presentazione che intende non solo descrivere, ma analizzare e interpretare l’opera. 
Diamo la scheda editoriale: 
Crepitano gli incendi autunnali sulle colline. Il primo freddo insegue come un cane uomini e donne che si riparano in una libreria. Accade ogni giorno, a ogni ora. Entrano e cercano qualcosa o nulla, il libraio li osserva avvolto in un’aura di tabacco. Poco lontano, ogni lunedì, alla stessa ora, un gruppo di sconosciuti si incontra per leggere frammenti di libri che stanno scrivendo; bevono e fumano abbottonati nel loro anonimato, si preparano ad ascoltare o a essere ascoltati. Una volta usciti dal locale, nessuno conosce più nessuno. Come una setta il loro rito è intimo, silenzioso, impronunciabile.
Un giorno uno degli uomini porta con sé alcuni romanzi di uno scrittore di cui si sono perse le tracce. Li ha scovati in una libreria, racconta, con le pagine stralciate, i dorsi scorticati che prudono tra le mani come sabbia e gridando senza sillabe chiedono di essere ascoltati. Appena iniziano a leggere, l’autore li inghiotte nell’universo delle macerie di Amburgo 1943, nella tempesta di fuoco precipitata dal ventre dei bombardieri; nell’universo di un bambino ingrigito dalla polvere in un bunker sotterraneo e destinato a diventare presto un orfano, che pochi anni dopo deciderà di raccogliere tutte le schegge esiliate di questa drammatica storia. Nelle sue parole riprendono vita pani di sego ammuffiti, libagioni nelle segrete stanze del potere e i fantasmi di Franklin D. Roosevelt, Winston Churchill e Adolf Hitler.
Nel suo romanzo d’esordio, tra Bolaño e Sebald, Marco Lupo dà vita a un’opera al nero che sfuma continuamente i contorni della narrazione. Geografia dell’oblio, studio anatomico della dimenticanza e regesto letterario di un massacro, Hamburg sfugge alla linearità del racconto per mutarsi, tra finzione e realtà, incubo e ricordo, in un coro di vite e memorie al centro del quale pulsano voci rotte dalla fame, braccia rose dalla rabbia e spettri inceneriti. Una storia in cui la memoria non è mai una cronaca fedele, ma il frutto polposo e amaro dell’immaginazione.

[6] Giovedì 28 novembre, ore 18.00, presentazione del volume di Edgar Morin-Michelangelo PistolettoAttiviamoci. Dialogo per il secolo (Lecco, Polyhistor Edizioni-Como, New Press Edizioni, 2019)

Dopo un’anteprima di presentazione il 25 ottobre presso il Crams, nell’ambito della due giorni di Brainart, la casa editrice Polyhistor Edizioni di Lecco, coautrice con New Press di Como,  presenta il volume presso la Libreria Parole nel tempo.  Introduce il Prof. Franco Minonzio, direttore della collana Àrbelos. Sono in via di definizione i nomi degli altri relatori. 
Si offre nella forma più estesa la scheda editoriale del volume: 
Michelangelo Pistoletto ha legato la sua fama in ambito artistico, fin dagli anni Sessanta del secolo scorso, al suo impegno nell’arte povera di cui è stato uno dei fondatori: un movimento che ha preso vigorosamente le distanze dall’opulenza pletorica della società industrializzata del dopoguerra e che dunque, per l’esplicita indisponibilità ad assecondare un progresso onnipotente, può per più versi essere retrospettivamente considerato uno dei precursori dei concetti di “decrescita” e di “sostenibilità”.  Ma Michelangelo Pistoletto è anche il creatore di Cittadellarte, un laboratorio del futuro – esteso su svariate decine di migliaia di metri quadrati - costituito, a partire da 1998, negli spazi di antiche manifatture in Biella, città natale dell'artista, che comprende un museo, biblioteche, e laboratori destinati ad accogliere i creativi del mondo intero. E precisamente lo sforzo di tradurre nella realtà il suo progetto di un’arte capace di interazione con tutti i segmenti dell’attività umana che compongono la società ha ispirato il desiderio di Pistoletto di confrontare le proprie idee con quelle di Edgar Morin, di uno dei pensatori della nostra epoca più interessato dall’evoluzione attuale del mondo. Nella sua lunga, operosissima, leggendaria esistenza, Morin si è battuto, sul piano politico, per l’affermazione della libertà e della democrazia, e sul piano filosofico per una riforma del pensiero che educhi alla coscienza della complessità. 
I primi passi in politica di Edgar Morin lo hanno visto sostenere la lotta dei repubblicani spagnoli, poi prolungata nell’impegno tra le fila della Resistenza francese al nazifascismo, e nel dopoguerra nelle battaglie contro il colonialismo e la guerra d’Algeria e per la difesa dei diritti dei popoli amazzonici. 
Negli anni 1969-70, durante un soggiorno di studio in California, l’ambiente scientifico dell’università di Berkeley lo ha spinto ad interessarsi a quella disciplina nascente che era l’ecologia. Da allora, e pur continuando ad articolare la sua poderosa opera di filosofo – scrive i sei volumi del suo principale opusIl Metodo, dal 1977 al 2004 –, Edgar Morin si dedica con ostinazione a mettere in guardia sia gli intellettuali che l’opinione pubblica sui pericoli e i disastri potenziali che corre il pianeta. Fra le circa ottanta opere da lui pubblicate, molti sono i titoli che – da Terra-Patria (scritto con Anne-Brigitte Kern), nel 1993, a La Via. Per l’avvenire dell’umanità, nel 2011 –, come altrettanti gridi di allarme, vogliono attirare l’attenzione del secolo sulle derive della globalizzazione e sulle perversioni di un sistema soggetto al diktat della crescita.
A convalida di un impegno che deve attuarsi in scelte concrete, al titolo dell’opera di Morin e Pistoletto (Impliquons-nous) e alle idee in essa sviluppate fa esplicito riferimento il Festival del Pensiero Civile Attivo (2019) promosso a Lecco dal Crams nell’ambito del Festival Nazionale della Sostenibilità, che ha progettato, con un impegno destinato a durare per gli anni a venire, I Quartieri del Terzo Paradiso, come motore di trasformazione sociale responsabile. 




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