2018-03-14

Prandino Visconti e l’“altro modo” di fare cinema

In un libro a cura di Corrado Colombo e Mario Gerosa vita e film del regista milanese nipote del mitico Luchino

di Claudio Bottagisi
La prima domanda nasce spontanea: perché l’altro Visconti? E’ presto detto: perché è esistito un altro Visconti, oltre al mitico Luchino. Era suo nipote Eriprando.
Un rapporto singolare e discontinuo, prendendo a prestito le prime righe del nuovo libro a cura di Corrado Colombo e Mario Gerosa, apparentemente non facile ma non per il carattere dei due, semmai per l’ambiente cinematografico degli anni Sessanta e Settanta che insinuava rivalità e retroscena solo per il gusto di colorire un rapporto di uno zio e di un nipote che erano fuori dalla logica ordinaria perché entrambi fuori dal comune.
Prandino - L’altro Visconti racconta vita e film del regista e sceneggiatore milanese Eriprando Visconti, classe 1932, morto nel 1995.
“Prandino lavorava sul territorio - scrive nella prefazione Manlio Gomarasca - alternando le immagini della città grigia, claustrofobica e indifferente agli spazi aperti della campagna, anch’essa grigia, spoglia d’autunno altrettanto indifferente: usando la nebbia sempre incombente, come un velo (im)pietoso, quasi pudico, che ammantava le passioni e le vergogne di una storia d’amore così diversa e così uguale a tante altre”.
Edito da “Il Foglio”, il libro di Colombo e Gerosa è il primo dedicato a Eriprando Visconti, che seppe raccontare una delicata società in transizione, non disdegnando un’apertura verso il cinema di genere, nobilitato da un’aristocratica veste autoriale.
Per capire il cinema di Visconti, inteso sempre come Eriprando, occorre aver capito la Lombardia, con i suoi umori. Il suo cinema si nutriva infatti di una malinconia indissolubile dalla sua terra, si abbeverava come detto alle grigie atmosfere delle nebbie padane e alle insoddisfazioni dei borghesi annoiati della Milano del boom.

E bene ha fatto il già citato Gomarasca a scrivere nella prefazione che “essere l’altro Visconti non sarebbe stato facile in un ambiente chiuso ed élitario come quello del cinema italiano”. Già, perché anche se avesse avuto successo ci sarebbe stato sempre qualcuno a fare paragoni, o magari addirittura allusioni: “Prandino aveva bisogno di evadere dalla mondanità, da Roma, e ritirarsi nel silenzio della sua tenuta in provincia di Pavia, dove amava dedicarsi alla caccia…”.
Lo raccontano bene, Colombo e Gerosa. E non a caso nel passaggio finale della sua prefazione Gomarasca non esita a scrivere che “questo libro, così appassionatamente voluto da chi ha conosciuto e amato Prandino Visconti, oltre a rappresentare la tardiva ma doverosa celebrazione di un regista fuori dagli schemi, dalle etichette e dai pregiudizi, dai falsi moralismi, ci restituisce oggi, a più di vent’anni dalla sua scomparsa, un’importante lezione e cioè che un altro modo di fare cinema è possibile”.
Luchino ed Eriprando, dunque. Corrado Colombo scrive che “Eriprando ha sempre nutrito, oltre che un grande affetto, un’ammirazione illimitata verso l’illustre zio e non ha mai pensato di emularlo, superarlo o entrare minimamente in competizione con lui, perché la sua intelligenza gli ha fatto capire da subito che Luchino era inimitabile e irraggiungibile”.
“Dal canto suo Luchino - afferma sempre Colombo - ha sempre aiutato e confortato il nipote e nella loro relazione c’è stato qualcosa di più di un semplice affetto parentale: una vera e propria affinità intellettiva, culturale ed esistenziale che si esprimeva anche in una somiglianza fisica e vocale quasi impressionante e soprattutto nel loro comune e viscerale amore per il cinema”.

Non è certo un caso, allora, che Colombo scriva nel libro Prandino - L’altro Visconti  che “Eriprando è stato per me non solo un maestro di cinema ma, soprattutto, di vita”. E che dunque lui non sa se lo si può definire un grande regista (e lui peraltro lo considera tale) ma certamente un grande uomo.

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